Uccisi in una terra di conquista
Padre Robert Kasereka Ngongi, sacerdote diocesano di Butembo, nel Nord Kivu, la regione dove è avvenuto l'agguato costato la vita all'ambasciatore italiano nella Repubblica democratica del Congo, di un carabiniere della sua scorta e del loro autista, ricorda si tratta di una terra ricca di minerali in cui si consumano grandi violenze
Un'imboscata in piena regola, probabilmente a scopo di sequestro, finita in tragedia. L'ambasciatore italiano Luca Attanasio,43 anni, il carabiniere Vittorio Iacovacci, 31, e il loro autista congolese, Mustapha Milambo, sono stati uccisi in un agguato mentre viaggiavano a bordo di un'auto dell'Onu in una regione della Repubblica democratica del Congo, il Nord Kivu, da anni teatro di violenti scontri tra decine di milizie che si contendono il controllo del territorio e delle sue risorse naturali. Il governo di Kinshasa punta il dito contro le Forze democratiche di liberazione del Ruanda (Fdlr), ribelli di etnia Hutu conosciuti per il genocidio in Ruanda del 1994, che hanno stabilito la loro roccaforte nell'area dell'agguato, mentre l'Italia chiede un rapporto dettagliato alle Nazioni Unite.
Il convoglio, composto da due vetture del Programma alimentare mondiale (Pam-Wfp), stava viaggiando verso nord, sulla strada tra Goma e Rutshuru, dove il diplomatico italiano avrebbe dovuto visitare un programma di distribuzione di cibo nelle scuole dell'agenzia dell'Onu, fresca di Nobel per la pace. Alle 10.15 (le 9.15 in Italia), le due auto vengono fermate a circa 15 km da Goma, nei pressi di Nyiaragongo, nel parco nazionale di Virunga, da un commando di 6 persone che apre il fuoco, prima sparando in aria, uccidendo poi prima l’autista e poco dopo il diplomatico italiano e il carabiniere di scorta. Secondo il ministero dell’interno di Kinshasa altre tre persone che facevano parte del convoglio sarebbero state rapite.
“Da noi ogni giorno ci sono notizie di uccisioni, oramai a Butembo-Beni c’è sempre una carneficina, si muore come insetti”. È addolorato ma non sorpreso padre Robert Kasereka Ngongi, sacerdote diocesano di Butembo, nel Nord Kivu, la regione dove è avvenuto. “ La strada su cui viaggiava il convoglio dell’ambasciatore italiano è molto pericolosa. Accadono di frequente fatti di sangue così gravi. Di solito su quella strada rapiscono persone importanti e poi chiedono il riscatto – spiega il sacerdote congolese –. Forse hanno visto un bianco e hanno pensato che sarebbe stato un modo per avere dei soldi”. Due suoi confratelli della diocesi di Butembo-Beni – don Charles Kipasa e don Jean Pierre Akilimali, della parrocchia Maria Regina degli Angeli di Bunyuka – sono stati rapiti il 16 luglio 2017 e da tempo non se ne ha più notizie. Lo stesso padre Robert si è occupato della vicenda: “Inizialmente abbiamo dato dei soldi ma non sappiamo se sono vivi e morti. Sono decenni – continua padre Robert - che in queste regioni nord-orientali della R.D. Congo ci sono violenze atroci e instabilità, portate avanti da feroci gruppi armati, probabilmente al soldo di potenze straniere che si contendono le ricchezze minerarie della zona”. Coltan, oro e diamanti prima di tutto, e poi, ancora, le terre fertili dove si coltiva caffè e cacao, le foreste dove vivono i gorilla di montagna, usate per il carbone.
Eppure, lamenta il sacerdote non senza condannare l’agguato di ieri, di queste violenze se ne parla solo quando vengono coinvolti degli occidentali. “Dalla guerra in Rwanda nel ’94, con i tanti rifugiati arrivati nel nord Kivu la situazione è sempre la stessa: uccisioni, rapimenti, incendi a case e villaggi, violenze alle donne”, dice padre Robert. La Chiesa locale, i missionari comboniani, sono intervenuti con numerosi appelli in passato. Sempre inascoltati. Il sacerdote non si dà ragione del fatto che, nonostante la presenza delle forze Onu (Monusco), non si riesca ad intervenire prima per evitare gli assalti e le violenze. Inoltre, “tra esercito e gruppi armati c’è molta complicità. A volte negli accampamenti dei soldati viene trovato ciò che è stato saccheggiato nei villaggi”
“Spesso gli assassini mandano in giro le foto delle stragi per far vedere a che livello di crudeltà sono capaci di arrivare – racconta -. Le persone si spaventano e scappano. Altri vengono ad occupare le loro terre e coltivazioni”. Dal 2014 ad oggi tra Beni e Lubero sono state uccise 2.700 persone. Secondo il sacerdote almeno 500.000 abitanti di Butembo e Beni, in maggioranza appartenenti all’etnia Nande, sono fuggiti, rifugiandosi in altre città del Congo, a casa di amici e familiari. Al posto della popolazione autoctona ora ci sono molti rwandesi.
Le materie prime vanno all’estero (il coltan nei nostri telefonini) e la popolazione locale viene sfruttata nelle miniere, dove lavora in condizioni disumane. Si pensa che i gruppi armati siano finanziati dall’estero, perché c’è chi trae grande vantaggio economico dalla situazione. Ma anche questa non è una novità. “Come mai il Rwanda è tra i primi esportatori di coltan, oro e diamanti senza avere questi minerali sul proprio territorio?”, si chiede il sacerdote: “Usano i gruppi armati per controllare le miniere, fanno lavorare la nostra gente come schiavi, poi tutto va fuori dal Paese. La violenza e la criminalità sono considerati degli effetti collaterali”.