Storie di morte e di vita al confine con l'Ucraina
Valico di confine slovacco-ucriano, Vyšné Nemecké. C’è un lento ma continuo passaggio di persone che dopo aver passato ore in fila su territorio ucraino, riescono finalmente ad arrivare in Slovacchia dove vengono accolti da militari, operatori e volontari di Croce Rossa, Caritas, Ordine di Malta. In queste tre settimane di emergenza sono state allestite tende di militari e ong con beni di prima necessità, luoghi caldi di ristoro, anche un presidio sanitario della International Rescue system.
Tra le tende ce n’è una che non si distingue tra le altre. È una cappella. Un luogo di preghiera con il Vangelo sempre aperto, le candele accese, i banchi, caldi tappeti adagiati sul pavimento e due Icone di Gesù e Maria poste sull’altare. Un luogo sacro ma anche uno spazio protetto e silenzioso dove chi arriva stanco, affamato, distrutto dal lungo viaggio può trascorrere un momento di silenzio e ristoro. C’è sempre un sacerdote che presidia la cappella. Ogni giorno vengono celebrate tre messe .
A gestire la cappella ma soprattutto i tanti seminaristi della chiesa greco-cattolica che prestano servizio a fianco dei rifugiati, è il parroco della cittadina di Vyšné Nemecké, padre Frantisek Engel. “I primi giorni – racconta – sono stati i più duri. La gente riusciva a oltrepassare la frontiera dopo 23 ore di fila. Ricordo di aver visto una notte, alle 1.30 e un freddo terribile, una madre togliersi il maglione per proteggere il suo bambino”. Spesso le persone vedendo i sacerdoti chiedono una preghiera, una benedizione. “Un giorno un prete si è avvicinato ad una donna per aiutarla a portare la valigia. Proprio in quel momento la signora riceve una telefonata dove le comunicano che suo marito era morto. Non smetteva di piangere”. Il valico si riempe di bambini.
Sono timidi. Non prendono nulla. “Solo quando gli diciamo di prendere qualcosa si fanno coraggio. Ricordo un bimbo che ha preso due banane. Una per sé. L’altra l’ha condivisa con la sorella”. Non sempre le persone hanno voglia di parlare. Chi lo fa ha racconti di guerra. “Come quella donna di Kharkov. Ci ha raccontato che per giorni hanno cercato di capire cosa fare. E quando hanno deciso di fuggire, hanno fatto appena in tempo. Una bomba è esplosa proprio sul loro edificio. Il tempo di voltare la testa e vedere che la casa non c’era più. Era completamente distrutta”. C’è poi la storia di una ragazza da Kiev che è riuscita a raggiungere il confine dopo 5 giorni di viaggio in autostop e senza mangiare. “Si è fermata da noi e ci ha chiesto aiuto. Come lei i primi giorni molti hanno dormito in canonica”. Le madri arrivano senza niente. Le poche valige le hanno riempite con i vestiti dei bambini. La parrocchia ha così deciso di raccogliere del denaro per dare almeno 200 euro a chi ha bisogno di aiuto. “Quello che vedo – conclude padre Engel – è una straordinaria dignità, un coraggio inaspettato e anche una grande umiltà nel chiedere aiuto. Se hanno lasciato il loro Paese è solo perché sono state obbligate e per dare un luogo sicuro ai loro figli. Ma la loro vita è là e il loro sogno è quello di poter un giorno tornare a casa”.