Lo scudo umano in una guerra glocale
Think global, act local: è guerra glocale, che al contesto immediato applica logiche che lo trascendono, secondo una compenetrazione che rende l’uno funzionale alle altre. L'analisi del docente della Pontificia Università Lateranense
Nell’etimo slavo, Ucraina significa “terra di frontiera”. Il segretario alla difesa Austin, nell’innalzare l’obiettivo all’indebolimento delle capacità militari della Russia nel loro complesso conferma fatalmente il significato appena ricordato: quanto sta avvenendo nel territorio ucraino segna una linea di contatto tra globale e locale. Think global, act local: è guerra glocale, che al contesto immediato applica logiche che lo trascendono, secondo una compenetrazione che rende l’uno funzionale alle altre. A rivelarlo è già l’asimmetria nell’interpretazione del conflitto: quel che vale strategicamente per Cremlino e Casa Bianca non corrisponde alla guerra patriottica per ragioni di sovranità territoriale che oggi Kiev ritiene di condurre. E asimmetria si ha anche nei costi, laddove morte e distruzione non equalizzano le spese di una guerra per procura. Del resto, le stesse sanzioni irrogate alla Russia espongono taluni molto più di altri a rischi recessivi che, dall’economia, graverebbero sulla pace sociale e sulla materiale autodeterminazione delle politiche di governo. Sostenuta da simili evidenze, prende sempre più piede nell’opinione pubblica la propensione a perforare le propagande contrapposte, vedendo la popolazione ucraina precipitare nella condizione di uno “scudo umano” collettivo. Se il Cremlino sfoga sull’Ucraina l’aggressione all’inconsistenza di status cui si ritiene condannato dall’Occidente, gli Usa investono su una guerra (ri)costituente in attuazione di un ventaglio strategico che, ormai da anni, le analisi vedono articolarsi su più livelli. L’occasione di fiaccare Mosca rappresenterebbe un appuntamento con la storia per avanzare verso l’età unipolare, promessa negli anni ’90 dal Project for a New American Century ma procrastinata dall’avvento di potenze “revisioniste”, la cui rivalità frena il compimento epocale. Gettare la Russia nelle braccia della Cina è il prezzo da pagare, ma con risvolti profittevoli se si tratta di consegnare un alleato debilitato, di cui Pechino sarebbe costretta a farsi carico pur di preservare la tranquillità geopolitica sulla piattaforma continentale.
In secondo luogo, dalla crisi del 2008 in poi, tutti gli inquilini della Casa Bianca non hanno fatto mistero di voler concentrare il focus geostrategico sul Pacifico in funzione anticinese. Pertanto, sottrarre alla Russia la sponda europea permette agli Usa un utile disimpegno, con la garanzia da parte degli alleati di schierarsi senza riserve abbandonando la politica dei “due forni”. Così la guerra supera il perimetro locale per tracciare la linea del fronte della competizione globale, che i gregari europei si erano illusi di poter trasgredire agilmente grazie alla liquidità delle “interdipendenze complesse”. Le interdizioni ai flussi commerciali e finanziari ripropongono gli schemi di un’economia di guerra che vorrebbe sradicare le infiltrazioni russe in Occidente e marginalizzare il ruolo di Mosca nei mercati globali. Ma, più realisticamente, il protezionismo selettivo dà il via a una gara in cui esibire patenti di occidentalismo assertivo, per guadagnare capitale reputazionale, in assenza delle alternative sino a ieri percorribili. Il che vale anche per chi deve farsi perdonare i flirt del passato con Mosca. Per questo il governo italiano ha rivoluzionato il passo della diplomazia nazionale: primo a sottoscrivere senza indugi le misure definite da Oltreoceano, unico a riecheggiarne l’escalation verbale con metafore zoologiche, ad assimilare la storia patria alle vicende correnti, ad aggirare i divieti dei propri dettati costituzionali. La ridisciplina dei satelliti passa prioritariamente per il comparto militare, posto che l’impegno di raggiungere il traguardo di spesa del 2% del pil entro un decennio era stato assunto già nel 2014 da una decina di governi Nato. Le scelte obbligate del presente vincolano la standardizzazione tecnologica europea al complesso militare-industriale statunitense. E nella concorrenza a essere “più realisti del re”, nei programmi Ue di difesa comune, acquistano lustro i falchi dell’est. Quello polacco in testa, che con una spesa militare al 3% candida Varsavia a luogotenente di Washington, per godere di maggior peso nel continente. Forse questo non basta a spostare il baricentro dei rapporti di forza nell’Unione, ma la guerra ha subito sortito cambiamenti importanti. Il riarmo unilaterale di Berlino, con una spesa ripetibile di 102 miliardi di euro, sblocca la Nuova Strategia di Sicurezza fino a ieri congelata da Merkel con il sollievo di Francia, Polonia e Regno Unito. Una svolta radicale nel paradigma tedesco dal secondo dopoguerra, presentata a febbraio con l’intenzione di rimuovere il tabù nazionale verso la Geopolitik compromessa con i trascorsi hitleriani. Ciò soddisfa gli Usa, che potrebbero così delegare la militarizzazione del nord a un alleato capace di serrare il blocco con i Paesi baltici e scandinavi (Svezia e Finlandia incluse). Nella prospettiva tedesca, il peso militare potrà servire come moneta nelle sedi decisionali, compensando l’Ostpolitik oggi preclusa. La cifra unilaterale dei riarmi segnala un terreno concorrenziale che frustra lo smarcamento geopolitico tentato dalla Francia per rilanciarsi nel Mediterraneo e in Nordafrica, cercando di avere mani libere con Mosca e Ankara nel riposizionarsi in Libia. Inoltre, Parigi non può più ignorare le rimostranze Usa per i canali di collaborazione aperti con Russia e Cina, per esempio, nello sviluppo – civile e militare – dell’intelligenza artificiale. In continuità con la tradizione gaullista, intenta a costituire un polo militare interno – ma non piattamente accessorio – alla Nato, Macron tradisce l’imbarazzo di pompiere esposto alla taccia di russofilia, in un crescendo incendiario che, comunque vada, promette di danneggiare l’interesse nazionale. Mentre si profilano crisi alimentari ad alto potenziale destabilizzante, le fibrillazioni si riattivano in diverse polveriere del mondo. Con l’alleggerimento russo, la Turchia ha potuto lanciare in Iraq l’operazione Claw-lock contro i curdi del Pkk, mostrando un attivismo sul campo che allarma l’Iran. In Libia riprende la sfida di Tobruk al governo di Tripoli, bloccandone i pozzi petroliferi. L’Azerbaigian, supportato dai droni di Ankara, ha trovato modo di violare la tregua siglata nelle mani russe in Nagorno Karabakh, provocando la risposta dell’irredentismo armeno. La Corea del Nord minaccia l’arma nucleare in risposta ai proclami del neoeletto governo di Seul. Solo alcuni esempi delle glocalizzazioni che si propagano ulteriormente dal quadrante ucraino. Ma è ancora buio pesto in fondo al tunnel, mancando una vera volontà politica di vedere la luce, senza la quale gli scudi umani rischiano di aumentare, a latitudini neanche così lontane.
@Foto Ansa/Sir