Attentati in Afghanistan: dal caos al terrore
I rischi paventati di possibili attacchi terroristici dell'Isis si sono materializzati ieri nei pressi dell'aeroporto di Kabul, con un bilancio di morti e feriti in continua crescita. C'è preoccupazione per la continuazione del ponte aereo. Caritas italiana, però, denuncia la scelta dei Paesi che hanno chiuso i oloro confini impedendo alla popolazione in fuga dai talebani di entrare
L'incubo peggiore è diventato realtà in Afghanistan. A poche ore dall'allerta attentati lanciato dagli 007 occidentali, due attacchi kamikaze compiuti dall'Isis .hanno causato morte e distruzione ieri all'aeroporto di Kabul uccidendo decine di civili, tra cui bambini, e almeno dodici militari americani, con un bilancio che in serata parlava di almeno 90 morti e 158 feriti.
Il racconto dei testimoni nella capitale afghana è stato agghiacciante. Cumuli di cadaveri, brandelli di corpi nel canale ricoperto di sangue. Un ex interprete dei marines Usa ha raccontato di aver visto morire tra le sue braccia una bambina di 5 anni. Le immagini e i video circolati sui social media mostrano feriti trasportati a bordo di carriole sgangherate con l'incessante ululato delle ambulanze in sottofondo.
Poco prima che scoppiasse l'inferno, un C-130 italiano con a bordo anche alcuni giornalisti era decollato tra i proiettili: erano di una mitragliatrice afghana che sparava in aria per disperdere la folla che pressava verso il gate dell'aeroporto ma a bordo si sono vissuti attimi di terrore.
Fin da subito gli Usa e i britannici sono stati certi che l'attacco sia stato opera dell'Isis-K, lo Stato Islamico della provincia afghana del Khorasan, il gruppo affiliato all'Isis nemico di Al Qaida e dei talebani. Loro, i nuovi padroni dell'Afghanistan, hanno condannato l'attacco scaricando la responsabilità sugli Stati Uniti: "E' avvenuto in una zona dove la sicurezza è nelle mani delle forze statunitensi", ha detto il portavoce Zabihullah Mujahid, assicurando che i talebani "stanno prestando molta attenzione alla sicurezza e alla protezione della loro gente" e che i nemici saranno fermati. Ma il rischio di altri attentati nei prossimi giorni è concreto e getta pesanti ombre sulle operazioni di esfiltrazione ancora in corso.
Gli attentati di ieri sono guardati con grande preoccupazione anche da chi, come Caritas, crede ancora nella possibilità di poter continuare ancora a lavorare nel Paese a fianco degli ultimi, in particolare nelle numerose realtà locali che sono sorte negli ultimi anni e che sono fondamentali per molte persone. “Negli scorsi anni – afferma Paolo Beccegato, vicedirettore di Caritas Italiana e responsabile dell’area Internazionale - anche in collaborazione con la Caritas afghana sono moltiplicati i centri di aiuto e sostegno verso i disabili, i più poveri e per chi vive nelle zone più remote dell’Afghanistan. Ora queste persone sono tutte preoccupatissime perché non sanno se potranno continuare a operare”. “In questo momento – spiega Beccegato – l’unica possibilità di evacuazione, ora messa in grave pericolo dai due attentati, è la via aerea, ma nessuno parla della via terrestre. Tutti gli stati hanno chiuso i confini salvo un piccolo punto di accesso in Pakistan. In questi giorni c’è un gran parlare dei talebani che hanno chiuso la trasvolazione dei cieli, ma nessun parla di tutti quei Paesi che impediscono alla popolazione in fuga di entrare. Gli stati confinanti dovrebbero aprire i confini e permettere alle persone di entrare per poi, secondo accordi internazionali, essere ricollocati al sicuro con delle quote per ogni stato”.
In questo senso, rimarca Beccegato, “rientra in campo il discorso della Conferenza episcopale italiana dei corridoi umanitari, che generalmente si fanno dai Paesi confinanti. Le evacuazioni sono in atto, ma così resteranno sempre limitate rispetto al desiderio di tante persone”. “Il discorso delle persone in fuga dall’Afghanistan è oggi legato a questa ultima emergenza, ma c’è da dire che negli ultimi quarant’anni il popolo afgano è esule e ci sono milioni di dispersi. Dalla Grecia alla Turchia, passando per l’Albania e fino alla Bosnia sono troppe le persone bloccate e che spesso vengono maltrattate. Quelli che scappano oggi sono le stesse persone, sono i fratelli di chi già è andato via – conclude il vicedirettore di Caritas -. È un popolo dimenticato con diritti e dignità, ma verso il quale sono stati innalzati solo muri. Questo non può lasciarci indifferenti”.