Volto accogliente
L’Unità di strada di Caritas Diocesana compie tre anni: il progetto pone al centro le persone senza dimora spesso invisibili ai più
Quest’anno, l’Unità di strada di Caritas Diocesana di Brescia compie tre anni, di cui due vivendo nella pandemia. L’Unità di strada si inserisce in un progetto di più ampio respiro di mobilitazione a favore delle persone senza dimora presenti sul nostro territorio promosso da Caritas Diocesana di Brescia, nel tempo sostenuto anche dal Gruppo Cassa Banca Centrale per il tramite di Caritas Italiana, nonché attraverso i fondi dell’8xmille.
Il progetto pone infatti al centro le persone senza dimora – spesso invisibili agli occhi dei più. Persone che per scelta o per motivi diversi legati ai loro percorsi complessi di vita vivono, dormono, abitano le strade e portici di Brescia.
Nello specifico, l’Unità di strada garantisce la presenza “in strada” di operatori professionali e volontari, due sere e un pomeriggio a settimana, nei luoghi aperti abitati da persone senza dimora. Nel 2021, sono più di 130 le persone incontrate e conosciute e oltre 280 nell’arco dei tre anni di attività. Nato con un obiettivo ben specifico, ossia mappare il fenomeno dei senza dimora nel territorio della città, il progetto ha poi assunto una forma più relazionale: dall’avvicinamento alle persone attraverso l’offerta di beni di prima necessità (tè caldo, cibo, sacco a pelo ecc.) alla costruzione passo dopo passo di una relazione significativa e costruttiva. Come raccontano operatori e volontari, infatti, l’offerta di tè e cracker è la risposta a una necessità del “qui e ora”, ma è soprattutto una modalità di aggancio per un iniziale scambio di battute. Durante le uscite serali gli operatori trascorrono del tempo insieme alle persone che incontrano: momenti brevi, ma costanti nel tempo, che permettono di stabilire un rapporto di fiducia. E così i “senza dimora” ritrovano un nome, un volto, una dignità, una collocazione nel tempo dell’incontro e, se lo desiderano, condividono tratti della propria storia. Questa attività aiuta a far cadere alcuni stereotipi e pregiudizi a favore di un riconoscimento reciproco cresciuto nel tempo dell’incontro.
Tre anni di progetto, di cui due di pandemia, significano anche una continua riflessione rispetto al proprio operato, come operatori e come volontari. Si è passati da una prima fase iniziale in cui la preoccupazione era “Come realizziamo il progetto?” a un secondo tempo in cui la domanda principale diventava “Perché lo facciamo?”. Il senso si ritrova nei passaggi di vita di alcune persone incontrate che hanno accolto l’invito di frequentare la mensa o di accedere ai dormitori della città o di aderire ad un progetto più strutturato come quello dell’Housing First.
(Immagine realizzata da Rinaldo Bellini)