Quel grido umano e santo di dolore
Michele Bonetti, presidente della Fondazione Tovini, traccia un ricordo di Paolo VI legato all'amicizia profonda che legò il Papa bresciano ad Aldo Moro
Se mi interrogo sul “mio” Paolo VI, ritrovo, da una parte, qualche ricordo diretto (invero pochi ma significativi: terminavo gli studi liceali quando Giovanni Battista Montini chiudeva la sua esistenza terrena), e, dall’altra, il pieno convincimento della attualità del suo insegnamento e della sua opera.
Tre i ricordi: uno particolare, l’altro generale, il terzo di profondità umana e religiosa. Il primo è di abitudine domestica. Si tratta di quando, adolescente, assistevo da casa alla benedizione urbi et orbi del Papa bresciano, trasmessa in televisione (bianco e nero), scandita dalla sua voce, di pacatezza e metro inconfondibili. Farsi il segno della croce avanti al successore di Pietro era, al contempo, espressione di unità familiare e di partecipazione ad un mistero universale. Il secondo ricordo è legato al contesto storico in cui stavo crescendo. Erano gli anni ‘70 e si avvertiva nettamente l’assedio che tanta cultura, più laicista che laica, rivolgeva alla Chiesa e ad un Papa che, nonostante i turbinii culturali, sociali e politici, perseverava nella difesa delle ragioni dell’uomo, della vita, della salvezza. Ne emergeva il pastore votato al servizio della verità, incoercibile agli interessi ideologici. Il terzo è la struggente testimonianza dell’amicizia che Papa Montini diede al tempo del rapimento e dell’omicidio di Aldo Moro - e della sua scorta -. Sento ancora vivida l’emozione della preghiera del Papa ai funerali dell’amico: “chi può ascoltare il nostro lamento, se non ancora Tu, o Dio della vita e della morte? Tu non hai esaudito la nostra supplica per la incolumità di Aldo Moro, di questo Uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico; ma Tu, o Signore, non hai abbandonato il suo spirito immortale, segnato dalla Fede nel Cristo, che è la risurrezione e la vita. Per lui, per lui”. Un grido umano e santo, di dolore e speranza insieme, che incarnava nel dramma del momento la docilità alla Provvidenza.
Il “mio” Paolo VI è oggi anche la percezione della sua dirompente modernità. Darne conto è una responsabilità che compete ad ogni credente nei confronti di un pastore della Chiesa universale in via di canonizzazione, ma ad un bresciano forse di più, perché è erede del tessuto di storia e di fede che ha generato Paolo VI ed è chiamato a darne degna continuità. Invero, valgono all’oggi i fondamentali di quella “linea montiniana” che Paolo VI ha saputo esprimere, quale chiave di lettura del reale e modalità di azione, con alcuni precisi caratteri. Si tratta del discernimento come metodo, del puntare sempre all’integralità dell’uomo senza esaurirsi nel dettaglio; si tratta del dialogo e dell’incontro come stile permanente e inesauribile; si tratta del coraggio di passare i confini, dell’osare confidando nella dimensione spirituale, del tenere lo sguardo attento alle coscienze. Una “linea montiniana” che è portatrice ancora di carica, per il fascino e le potenzialità che i giovani riscoprono quando posti di fronte a Paolo VI maestro, testimone e pastore, riuscendo a trarre tuttora alimento e confronto da un vero uomo di Dio.