Montenegro: Cristo nel volto dei malati
"Se il povero, e il malato è il povero di salute, è presenza di Gesù, anche se ciò può essere scomodo, lo debbo contemplare. Se non so contemplare non so servire” ha detto il cardinale Francesco Montenegro, presidente della Commissione episcopale della carità e della salute, che ha dialogato con gli operatori della salute del Centro pastorale della Provincia Lombardo Veneta
“Fate in modo che San Giovanni di Dio non sia solo un modello, provate a superarlo. Dio ci meraviglia con la sua tenerezza e ci chiede di meravigliare con la nostra tenerezza coloro che avviciniamo”. Si conclude con questo invito il dialogo presso l’Irccs di Brescia tra il card. Francesco Montenegro e alcuni operatori della salute. L’occasione del confronto è stata offerta dall’anniversario (il 25°) del Centro pastorale provinciale dei Fatebenefratelli. La Provincia Lombardo Veneta dell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio è “tornata a vivere – ha sottolineato il superiore provinciale fra Massimo Villa – quello che 500 anni fa viveva San Giovanni di Dio””. Si prendono cura della fragilità sia essa quella di natura psichica sia essa quella dei richiedenti asilo. Le parole di Montenegro hanno l’effetto di una boccata d’ossigeno in un tempo in cui troppo spesso corriamo il rischio dell’asfissia. Don Franco, così come vuole essere chiamato, ha esordito con una premessa: “Il malato è il luogo dove incontro Dio, i malati sono segnali di Dio. Quando vado in Ospedale, non vedo dei malati ma Cristo. Devo, però, avere una buona vista per saperlo riconoscere. L'unico modo è la contemplazione”.
Il presidente della commissione episcopale della carità e della salute ha insistito sulla necessità che l’operatore pastorale ospedaliero recuperi la dimensione contemplativa: se “quando entro in ospedale incontro Cristo, il modo corretto di pormi dinnanzi al sofferente non è diverso da quello che mi porta a incontrare Gesù nell’Eucarestia. Il servizio al malato non esaurisce dunque la vostra missione, ma deve partire dalla contemplazione. Se il povero ̶ e il malato è il povero di salute ̶ è presenza di Gesù, anche se ciò può essere scomodo, lo debbo contemplare. Se non so contemplare non so servire” ha detto il Cardinale. Se quell'uomo è Gesù... “Quello che fa la differenza è il nostro modo di guardare il malato”. Vita concreta. “Le corsie sono la continuazione della via di Emmaus. Anche oggi possiamo trovare uomini senza speranza. Dobbiamo riuscire a tradurre con i gesti il mistero della tenerezza di Dio. Chi sa usare gli occhi mette in funzione il cuore e quando occhi e cuore funzionano, le mani si allargano”.
Montenegro ha fornito anche alcuni esempi di come si possa contemplare Cristo nel volto dell’altro. Perché non pensare, in Quaresima ad esempio, a un gruppo che una settimana fa l’ora di adorazione in chiesa e a un gruppo che contemporaneamente si reca dai malati; poi la settimana successiva si scambiano i ruoli. “L'eucaristia, l'amore e il malato coincidono. Se ho fame di pane e non sento fame del fratello che ha bisogno di amore, l'eucaristia non l'ho ancora incontrata. Quando mangio Gesù, poi torno tra gli altri con Gesù nel cuore. Alla fine della Messa sarebbe più corretto che dicessimo: Va’ e anche tu fa lo stesso”. Nel suo confronto, ha incoraggiato gli operatori a essere “Chiesa accanto ai malati. Dobbiamo darci da fare per essere Chiesa, per fare Chiesa. Voi quello che fate, lo fate nella Chiesa e per la Chiesa”. Serve una maturazione anche delle comunità. “Nei nostri consigli pastorali non ci sono i malati. Anche noi consideriamo di serie B quelli che la società considera di serie B”. In una realtà come quella della Provincia Lombardo Veneta dove sono presenti 39 religiosi e 2.200 dipendenti diventa ancora più importante parlare al laicato. “Se la laicità è una ricchezza, siete il respiro di Dio come sosteneva Giovanni Paolo II. Siete maggioranza. Quando si farà il passaggio da collaboratori a corresponsabili” anche all’interno delle nostre comunità? Ha ribadito che “la pastorale della salute non può non integrarsi con il territorio. Sapete quante famiglie arrabbiate con Dio per la malattia non entreranno mai in Chiesa ma vi incontrano nella quotidianità? Il territorio è la sfida. Se c’è una cosa che non si può delegare è l’amore. Il servizio ai poveri si può fare, si deve fare. Le periferie dei nostri fratelli a letto sono segni pasquali. E se la Chiesa non si accorge di questo… Voi siete una ricchezza nella Chiesa: sperimentate la bellezza di vivere una liturgia dove l’uomo è al centro senza chiedere permesso”.
E così “I care diventa I cure, mi prendo cura. Non siamo cristiani se non ci interessiamo delle cose dell’uomo. Ogni atto di carità è un atto di fede. Non sempre ogni atto di fede è un atto di carità”, basti pensare al sacerdote e al levita che passarono diritti… “Controllate i 10 verbi della parabola del Samaritano. Se salto un verbo, non amo completamente. Basta prendere il Vangelo, se togliamo i poveri (i malati), nella Chiesa non c’è più Gesù. Un operatore sanitario/pastorale o un Vescovo che non si sporca le mani, non ha ancora finito di vivere il Vangelo”. Con uno sguardo sul mondo. “Noi, sacerdoti e laici, dobbiamo tenere le porte aperte per permettere ai rumori di fuori di entrare e alle preghiere di dentro di uscire”. Il vescovo di Agrigento sa bene anche qual è il livello di parcellizzazione delle comunità. “Io non devo formare catechisti o altri, io devo formare operatori pastorali a 360 gradi. Poi a seconda delle qualità ti indirizzo. La nostra formazione deve essere integrale. Non possiamo essere cristiani a settori. Ci dobbiamo sentire tutti professionisti della vita. Ci sono persone che dicono ‘Io mi interesso dei poveri ma non mi interessa la Bibbia…’ Non aspettate i poveri, cercateli”. Di fronte alle complessità, non dobbiamo dimenticarci che “siamo ricchi di un amore più grande di noi”.
Non vuole sentire parlare di come umanizzare l’ospedale, perché "se c’è un luogo umanizzante e umanizzato questo è proprio l’ospedale. È il luogo dove l’incontro è umanizzazione. Anche la Chiesa tante volte non è umanizzante. Le nostre Messe sembrano fabbriche di frigoriferi. Non guardiamo neppure il volto di chi ci sta vicino”. Tutti possiamo e dobbiamo essere protagonisti. “Il cristiano è colui che quando lo incontro mi lascia con il desiderio di Dio. Un cristiano che non riesce a contagiare gli altri non è un cristiano”. Di fronte alle nuove proposte di legge (Dat), spiega che anche a livello normativo “quando si tocca il fondo, poi si risale. Sappiamo il significato della vita. Anche gli ultimi giorni possono diventare giorni di ricchezza. In un mondo che va a rotoli, noi cerchiamo di tener fermo il valore della vita. Pratichiamo la speranza. Gesù non ha curato tutti, ma ha dato la speranza a tutti. E noi che siamo la sua continuazione dobbiamo dare speranza. Siamo chiamati a essere testimoni in un mondo che crede di poter fare a meno di Dio e ha altri profeti. Accanto al malato possiamo dire: ‘Io ci sono’. Il nostro dovere è quello di accompagnare le persone. È diverso morire con qualcuno che ti tende la mano. Un giorno un povero mi ha detto: io invidio i cani, perché non ho nessuno che pensa a me”. Del resto “ogni uomo vuole essere semplicemente uomo”.
In conclusione don Carmine Arice, direttore dell’Ufficio nazionale di pastorale della salute, ha lanciato una proposta a tutti gli operatori della Provincia Lombardo Veneta dei Fatebenefratelli: “Se 25 anni fa vi siete regalati il Centro pastorale, perché non vi regalate un Centro culturale dove si possa promuovere una cultura umanizzante. Può essere il regalo della famiglia religiosa dei Fatebenefratelli alla Chiesa”. E i Fatebenefratelli che, per carisma, non curano solo il corpo ma la dimensione totale della persona, hanno tutte le carte in regola per accettare la sfida.