Monari e quel volto con cui confrontarci
L’omelia del vescovo Luciano Monari per la festa dei Santi Patroni pronunciata nella Chiesa dei Santi Faustino e Giovita
“Il volto dell’altro”, “mai senza l’altro”, è la provocazione con cui dobbiamo continuamente confrontarci: l’altro è altro, quindi un volto diverso dal nostro, non ancora conosciuto e che forse non conosceremo mai; un volto che può inquietare e impaurire. E tuttavia non ci è possibile vivere, essere noi stessi, senza di lui, senza il confronto sempre rinnovato con i suoi pensieri, desideri, valori. Senza l’altro, la nostra vita rischia di diventare ripetitiva, noiosa e, alla fine, dimezzata.
Questo è il tema che è stato scelto quest’anno per la festa dei santi patroni Faustino e Giovita. La formulazione è affascinante e costringe a riflettere, come abbiamo tentato di abbozzare nell’incontro pubblico in Loggia. Ma c’è qualcosa di paradossale se accostiamo quelle riflessioni alle tre letture che abbiamo ascoltato.
La prima è un brano del libro delle Cronache e racconta l’uccisione di un sacerdote (Zaccaria) da parte del re Ioas che non sopporta i suoi rimproveri profetici; la seconda è la proclamazione della libertà di cui il cristiano gode per grazia di Dio e che le persecuzioni, le minacce, il martirio stesso non riescono a umiliare; la terza, il vangelo, parla dei discepoli di Gesù trascinati davanti a un tribunale, odiati e perseguitati a morte.
Il significato di queste letture è naturalmente riferito ai santi Faustino e Giovita martiri, nostri patroni; ma proprio questo ci costringe a farci domande. Non si può vivere senza l'altro; non si matura senza il confronto con il mondo materiale, con altri soggetti personali, con Dio stesso. Ma questo non significa che la vita con l’altro sia sempre gradevole e gratificante.
Fin dall’inizio, quando Caino uccise il suo fratello, l’incontro con l’altro, anche con l’altro più vicino, porta con sé ambiguità, tensioni, disagi: gelosia e invidia, odio e aggressività, inganno e violenza hanno segnato e continuano a segnare i rapporti umani e proiettano su di essi un’ombra che disturba. D’altra parte saremmo disonesti se non volessimo vedere queste difficoltà. Il vero interrogativo è: come viverle? come riuscire a rimanere umani e cristiani anche quando il rapporto con l’altro si colora di cattiveria e di falsità?
Il sacerdote Zaccaria viene lapidato nei cortili del tempio per ordine del re Ioas; ora, Zaccaria era figlio di Ioiada che aveva salvato da morte Ioas stesso quand’era bambino inerme. Il re, quindi, sta facendo uccidere il figlio di colui che lo aveva salvato da morte. Zaccaria, morendo, dice: “Il Signore lo veda e ne chieda conto.” Si possono leggere queste parole come espressione di un risentimento impotente: Zaccaria non può fare altro, di fronte al potere violento del re, che minacciare una vendetta divina che verrà – se verrà – in un tempo futuro.
Ma si possono leggere le medesime parole come la proclamazione di una fiducia nella giustizia che non viene meno nonostante tutto. Il mondo è governato da Dio e gli avvenimenti del mondo, tutti, finiranno per delineare un disegno voluto da Dio, armonioso e degno di lui. Che Dio non paghi il sabato può essere motivo di sofferenza acuta; ma la sicurezza che Dio “darà a ciascuno secondo le sue opere” rimane per l’uomo di fede fonte di sicura fiducia.
Il martirio di Zaccaria, evento tragico di ingiustizia e di ingratitudine, non dimostra che il mondo sia assurdo e che il desiderio di giustizia sia pura illusione. L’appello alla fedeltà di Dio permette a Zaccaria di accettare la sua impotenza senza dover covare un risentimento infinito nei confronti della vita che ha fatto di lui un perdente.
Parlando di Gesù, anch’egli un perdente secondo i valori mondani, san Pietro scriverà: “Quando era oltraggiato non rispondeva con oltraggi e soffrendo non minacciava vendetta, ma rimetteva la sua causa a Dio che giudica con giustizia.” Per questo motivo san Paolo, scrivendo ai Romani, può proclamare la libertà del credente di fronte a tutte le situazioni, anche le più angosciose, che si possono presentare.
Elenca una serie di esperienze negative che possono intimorire e condizionare l’uomo: la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada; tutte cose, eccetto l’ultima, che Paolo ha già conosciuto sulla sua pelle. E di fronte a tutte queste minacce, proclama la libertà vittoriosa del credente: “Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?... Chi ci separerà dall’amore di Cristo?.... né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù nostro Signore.”
C’è una sicurezza infrangibile di cui possiamo godere: quella di essere amati da Dio in Gesù Cristo. Ci basta questa sicurezza per sapere che qualunque cosa accada, la nostra vita non piomberà nelle tenebre di un fallimento definitivo e della seconda morte. Gli insuccessi mondani – cioè le sofferenze, le umiliazioni, le diverse forme di povertà – possono sì sottometterci a pressioni gravi, ma non possono toglierci quella libertà interiore che ci è donata dall’amore di Dio.
Infine il vangelo prende in considerazione le tribolazioni alle quali il credente può essere sottomesso: processi in tribunale; punizioni fisiche nelle sinagoghe; contrasti familiari; odio nella società. La vita del cristiano nel mondo non è certo descritta con colori attraenti. Non viene nascosto nulla di ciò che può provocare viltà e timidezza.
Esperienze così paurose provocano istintivamente un atteggiamento di autodifesa; a sua volta l’autodifesa rischia sempre di trasformarsi in aggressività: all’odio si risponde con l’odio e alla violenza con la violenza. Per fortuna questa deriva non è inevitabile: “Quando vi consegneranno nelle loro mani – dice Gesù – non preoccupatevi di come o cosa dovrete dire [cioè non preoccupatevi di difendere voi stessi], perché vi sarà suggerito in quel momento ciò che dovrete dire: non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre che parla in voi.”
Le vostre parole non saranno suggerite dalla fragilità della carne che può essere facilmente spaventata, ma dalla forza dello Spirito che è Spirito di forza, di amore e di saggezza. Intendiamo bene: Gesù non sta dicendo: “Vi prometto che non vi succederà niente di male; alla fine sarete assolti e tutto finirà in gaudio.” Sta dicendo invece: non vi succederà nulla che possa distruggere il vostro rapporto con Dio e privarvi della salvezza; ma contemplando anche la possibilità del martirio.
Tre letture, dunque, che ci collocano davanti al Tu di Dio in situazioni di angoscia: appellandosi a Dio, Zaccaria può accettare di non ottenere personalmente vendetta, di non vedere la punizione dell’avversario; Paolo può sopportare con speranza le tribolazioni della vita e le violenze del mondo; il discepolo di Gesù non si chiude in un atteggiamento di pura autodifesa davanti alle accuse e alle minacce.
Riprendiamo allora l’affermazione iniziale: la relazione con l’altro è assolutamente necessaria per la maturazione della persona umana. Non si tratta, però, di una relazione sempre rosea che passa di gioia in gioia sperimentando sempre meglio la bontà del prossimo. Si tratta piuttosto di una sfida nella quale dobbiamo anche affrontare falsità, odi e violenze e vincerli senza diventare a nostra volta falsi, cattivi, violenti.
Il riferimento a Dio e alla sicurezza del suo amore è forza sanante, che può impedire al male di compiere la sua opera, cioè di rendere l’uomo cattivo e disonesto. Quanti sono diventati violenti a motivo di una violenza subita! E quanti sono diventati ingiusti a motivo di una ingiustizia subita! L’amore di Dio che ci raggiunge sotto forma di grazia e cioè di dono non meritato ha una autentica forza di redenzione: può liberare l’uomo da quell’amarezza risentita che avvelena il cuore e lo irrigidisce nel rifiuto di perdonare; può salvare la capacità e il desiderio di amare nonostante tutto; può aprire strade di comunicazione dove eventi negativi hanno rinchiuso la persona nei giri tristi di un io che vede e vuole solo se stesso.
Questo è il motivo della nostra presenza qui, a celebrare l’eucaristia. Si tratta di un evento ufficiale, con la presenza di tutte le autorità cittadine – già questo è un segno che arricchisce il senso di identità di una città vera come è Brescia. Ma sarebbe troppo poco se tutto si limitasse al rito; il rito vuole cambiare i sentimenti, suscitare decisioni, creare e rafforzare legami di rispetto, di solidarietà.
Vuole addirittura motivare la possibilità di sacrificarsi per il bene degli altri – una scelta che appare ingiustificabile alla luce di un conto rigido di dare e avere, ma che acquista una validità vittoriosa alla luce dell’amore di Dio e della vita eterna. Sono convinto da sempre che questo è il contributo primo che la fede dei cristiani può portare come ricchezza alla città in cui vivono: non qualcosa di nostro, ma qualcosa che viene da Dio e che viene donato per tutti.
Mai senza l’altro, dunque. Solo entrando in relazione con l’altro possiamo crescere come persone umane verso una maturazione psicologica, personale, spirituale. E quand’anche l’incontro col ‘tu’ umano dovesse rivelarsi generatore di sofferenza e di disagio, l’apertura al ‘Tu’ di Dio riaprirebbe comunque strade e porte, trasformerebbe anche il dolore in forza di redenzione.