Mi affido a Maria pensando a Paolo VI
Ieri, celebrando la S. Messa alla Basilica delle Grazie, il vescovo Pierantonio ha affidato il suo ministero alla Madonna rivolgendo il suo pensiero al beato Paolo VI
Con profonda gioia e non senza emozione celebro con voi questa Eucaristia qui, nel santuario della Madonna delle Grazie, a poche settimane dal mio ingresso in diocesi. È questo un luogo assolutamente singolare e direi unico, tanto caro alla città di Brescia e a tutta la diocesi. Gioiello d’arte e insieme casa di preghiera, meta della devozione sincera di tanti uomini e donne che continuano ad affidarsi all’intercessione materna di Maria. A lei vorrei qui affidare anche il cammino della nostra diocesi nei prossimi anni e il mio personale ministero di vescovo.
Vorrei farlo tuttavia con un pensiero rivolto al beato Paolo VI, il grande papa bresciano per il quale ho sempre nutrito grande stima e devozione. Qui a fianco, nella casa paterna, egli ha vissuto la sua infanzia; qui ha celebrato la sua prima santa Messa; qui è conservata la reliquia che ricorda un episodio cruento del suo pontificato. Per tutti noi, per voi e per me, questa diventa così l’occasione per tornare a stupirci davanti alla potente testimonianza di questo grande protagonista della storia del secolo scorso, storia della Chiesa ma non solo, e per lasciarci guidare da lui a domandare a Maria ciò che riteniamo prezioso per il nostro cammino di Chiesa nel prossimo futuro.
La Parola di Dio, con la pagina del Vangelo di Matteo che è stata proclamata, ci presenta la figura di Gesù nell’atto di esercitare il suo compito di maestro. Uno dei dottori della legge, esperto della ricca tradizione mosaica, osa porre a Gesù la domanda considerata cruciale dagli Scribi e dai Farisei. Dice dunque a Gesù: “Maestro, qual è il comandamento della legge che dobbiamo considerare più grande?”. Come a dire: dei dieci comandamenti e delle centinaia di precetti che la nostra tradizione ha formulato, quale a tuo giudizio va considerato il primo? In altre parole: che cosa Dio vuole che facciamo assolutamente? Cosa si aspetta anzitutto da noi? La risposta di Gesù è immediata e molto precisa: “Il comandamento più grande e in assoluto primo rispetto a tutto è questo: amare Dio nello slancio del cuore, nel totale coinvolgimento di tutte le facoltà e con la piena adesione della propria intelligenza”. “Ma subito dopo – aggiunge Gesù – ne viene un secondo, che gli assomiglia molto: amare il prossimo come se stessi”. Ciò che accumuna i due comandamenti e li rende simili e inseparabili è il verbo amare. Tutta la legge, dunque, si riassume – secondo Gesù – nel comando di amare Dio e il prossimo, nell’esortazione a diventare capaci di farlo. Quanto qui non è detto, ma in altre pagine dei Vangeli è chiarissimo, è che questo amore deriva direttamente da Dio ed è partecipazione all’amore suo. “Chiunque ama – scrive san Giovanni nella sua prima lettera – è stato generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore” (1Gv 4,7-8). Questo dunque insegna il maestro Gesù a colui che ha voluto interrogarlo.
Maestro: così molti amavano chiamare Gesù quando lo incontravano. I Vangeli ce lo testimoniano. Ed egli non ha mai rifiutato questa definizione. Era ben consapevole che l’insegnamento rientrava nella sua missione di salvezza a favore dell’umanità. Certo egli è molto di più di un maestro ma indubbiamente è anche questo. Come tale, egli ha offerto alla sua Chiesa e alle generazioni di ogni tempo il suo straordinario insegnamento, nel quale è risuonata e continua a risuonare la sua parola autorevole, la sua voce amorevole, la sua sapienza illuminante, la sua forza incoraggiante. Sono queste le caratteristiche del vero maestro, che le grandi folle riconoscevano a Gesù, affascinate dal suo modo di parlare.
Sono convinto che nella luce di questo magistero supremo del Signore Gesù si debba guardare alla figura di Paolo VI, per coglierne una delle sue caratteristiche essenziali. Egli è stato davvero un grande maestro: un uomo che ha insegnato e che ha fatto scuola. La sua parola è stata capace – e lo è tuttora – di far percepire la potenza e la bellezza del Vangelo. Dotato di una intelligenza penetrante, di una forte sensibilità, di un appassionato desiderio di sapere e di capire, che lo spingeva con naturalezza ad aprirsi ad ogni forma di cultura, egli ha reso moderno e attuale ciò che è eterno, ha dato voce umana alla Parola di Dio.
Lo ha fatto attraverso un pensiero acuto e un linguaggio efficace, i cui frutti sono in particolare i grandi documenti del Concilio, che portano la sua impronta, e le encicliche che egli scrisse successivamente. Sappiamo bene cosa dichiarò papa Francesco presentando la sua Evangelii Guardium: disse che si ispirava totalmente all’Evangelli Nuntiandi di Paolo VI, da lui venerato come maestro ed esempio di vita.
Lo ha fatto, ancora, attraverso gesti che hanno segnato la storia del pontificato: egli è stato il primo papa dopo san Pietro a tornare in Terra Santa, il primo a deporre la tiara, a varcare la soglia dell’ONU, ad abolire la corte pontificia, a distinguere in un documento di rilievo teologico tra ateismo e atei.
Lo ha fatto, infine, attraverso lo stile del dialogo, per lui connaturale e sentito come doveroso. “Bisogna farsi fratelli degli uomini – diceva – nell’atto stesso in cui vogliamo essere loro pastori e padri e maestri”. “Il clima del dialogo – aggiungeva – è l’amicizia, anzi il servizio”. Dal desiderio del dialogo derivava poi l’amore per la cultura, che Paolo VI intendeva come umile e disinteressata ricerca della verità. Quella verità che “per delicata e complessa che sia – diceva – dovrebbe saper raggiungere formulazione così felice da rendersi in qualche modo intuitiva e affascinante”. Questo è in effetti lo scopo della cultura: rendere amabile e attraente la verità. Per papa Montini, cultura era sinonimo di sapienza: un conoscere che illumina il vivere.
Profondità di pensiero, ampiezza di vedute, naturale predisposizione al confronto, gusto per la riflessione pacata, grande padronanza del linguaggio: queste le caratteristiche di questo pontefice che è stato maestro nella Chiesa e di cui questa sua terra deve andare fiera. Eppure fu lui a dichiarare una volta che “l’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri”. Come a dire che il suo primo desiderio era quello di essere non un maestro ma un testimone. E in effetti, quando l’essenza dell’insegnamento è quella svelata da Gesù nel dialogo con il dottore della legge, non può essere che così. Dell’amore, l’amore totale per Dio e l’amore del prossimo come se stessi, non si disquisisce o semplicemente si ragiona: l’amore si vive e solo con la vita lo si dimostra. Perciò, questo occorrerà ricercare nella vita e nel ministero di Paolo VI: una testimonianza di amore. Ma certo, facendolo, non si resterà delusi. Il papa del Concilio – spesso dipinto come piuttosto freddo e poco incline alla manifestazione dei sentimenti – è stato invece un uomo di grande cuore, che sapeva dimostrare un affetto sincero e intenso, nelle forme discrete del suo carattere. Abituato fin da giovane a frequentare luoghi di pensiero e stanze di rappresentanza, egli aveva conservato lo spirito semplice e mite dell’uomo di fede, che, sentendosi amato dal suo Signore, nulla cercava per sé. Il suo era uno sguardo intenso e buono, che, insieme con le sue mani, si protendeva con una vera passione d’amore verso le grandi folle che lo salutavano: molte delle innumerevoli fotografie che abbiamo di lui, ce lo rappresentano proprio così. Il suo amore sincero per tutti nel nome di Cristo lo rendeva estremamente severo con se stesso: egli non voleva che la sua persona prendesse il posto del Signore nel cuore dei cristiani. Questo suo scrupolo, insieme con la riservatezza del suo carattere, fu purtroppo interpretato da alcuni come aristocratico distacco dall’umile gente del popolo di Dio,
Possiamo allora, a questo punto chiudere il cerchio e dire che Paolo VI fu davvero quanto desiderava essere, cioè un testimone di Cristo, ma lo fu essendo nel contempo anche un vero maestro. Il maestro, infatti, non è un erudito e neppure semplicemente un esperto della materia che insegna. Il maestro è un amico autorevole, qualcuno a cui si guarda con profonda stima ma anche con affetto, al quale si è riconoscenti per ciò che si è ricevuto. Maestro è una persona la cui presenza è divenuta cara per i suo sguardo amorevole, la sua cura costante, la sua limpida intenzione di bene, la sua generosa dedizione; in una parola, una persona che ci ama e che amiamo. Così, un testimone dell’amore di Dio e del prossimo può essere anche un maestro, un uomo che anche attraverso il suo insegnamento fa percepire l’amore di Dio e l’amore per Dio, mentre diffonde l’amore per il prossimo. Il grande papa di cui ci onoriamo di essere concittadini e condiocesani aveva queste caratteristiche.
Che cosa dunque chiederemo alla Beata Vergine Maria, in questa suo santuario che custodisce la reliquia di Paolo VI? Chiederemo di saper imitare la limpida testimonianza d’amore del papa che qui è nato ed è cresciuto e di raccogliere l’eredità del suo autorevole insegnamento. Chiederemo poi di saper amare come lui, unificando cuore, anima e intelligenza nello slancio appassionato di una fede sapientemente operosa. Chiederemo, infine, di saper leggere come lui i segni dei tempi, offrendo così un insegnamento autorevole e consolante, che sia luce per ogni uomo di buona volontà. È quanto anch’io vorrei chiedere per me e per voi, pensando al cammino che abbiamo davanti.
Mi conforta molto pensare che colui del quale conserviamo le reliquie in questo luogo dedicato alla santa Madre di Dio e tanto caro a questa città, è ormai nostro amico e intercessore. Egli, nei cieli, è beato tra i beati, nell’attesa nostra, molto viva, di proclamarlo santo tra i santi. Per mezzo di lui, in comunione con Cristo e nella potenza dello Spirito santo, salga al Padre la lode e la gloria, per tutti i secoli dei secoli. Amen