Le faremo sapere
Offrire un lavoro è insegnare un patrimonio di competenze e risorse professionali, culturali, espressive altamente qualificate. È dare fiducia, trasmettere un’arte, affidare un’eredità di responsabilità e di funzioni generative di creatività
Le faremo sapere. È questa la frase più nota ai giovani alle prese con i colloqui di selezione. È la frase di chi, per vari motivi, è in cerca di un nuovo impiego lavorativo. Offrire un lavoro! In qualche modo è insegnare un patrimonio di competenze e risorse professionali, culturali, espressive altamente qualificate. È dare fiducia, trasmettere un’arte, affidare un’eredità di responsabilità e di funzioni generative di creatività, innovazione, servizio sociale. Un principio ebraico dice: “Ogni uomo è tenuto a insegnare al proprio figlio un mestiere. Chiunque si astenga da ciò insegna al proprio figlio a diventare un ladro”. Esprime la passione, l’entusiasmo, l’orgoglio, la “voglia” di condivisione, anche se contrassegnata dalla tenacia, dal sacrificio, dalla sconfitta. Tanti sarebbero gli esempi: nella Sacra Scrittura come nell’arte, nella storia come nell’economia.
Il libro della Genesi presenta Jahvè come un Dio che lavora e si riposa: in sei giorni crea l’universo, il settimo giorno contempla la perfezione della propria opera. E consegna all’uomo un mandato particolare: a lui è affidato il compito di custodire e coltivare quel “giardino” in cui Dio lo ha posto. Il lavoro è, dunque, un’attività connaturale e degna della persona, sempre interpretato alla luce di un corretto rapporto con Dio. Nel Vangelo di Matteo, Gesù è riconosciuto come “il figlio del falegname” (Mt 13,55), segno che Giuseppe ha istruito Gesù nel lavoro di carpentiere, di falegname. Un lavoro manuale, di cui non vergognarsi, impregnato di sudore, di fatica, di callosità, ma anche di amore e di concretezza, di servizio e di condivisione. Celebre è, infine, l’affermazione di S. Paolo: “Chi non vuole lavorare, neppure mangi” (2Ts 3,10), a conferma della sua scelta di lavorare con le proprie mani per non essere di peso ad alcuno e per ottenere, grazie al lavoro, l’autonomia e la libertà che gli consentono di predicare. Nel campo della letteratura basti ricordare Dante Alighieri. Dedica una terzina al maestro Cimabue nel canto XI del Purgatorio: “Credette Cimabue nella pittura / tener lo campo, e ora ha Giotto il grido, / sì che la fama di colui è scura” (vv. 94-96). Da qui la tradizione che Giotto sia stato allievo nella bottega di Cimabue. In campo economico, sono molti quelli che hanno avuto una profonda curiosità intellettuale che li ha spinti a guardarsi attorno e a riflettere sulle relazioni tra le posizioni teoriche e i processi decisionali concreti.
In essi è stato particolarmente acuto il senso civico e profondo il ruolo di responsabilità sociale per trovare soluzioni ai problemi della società. Il richiamo a questa tradizione che ha saputo trasmettere, insegnare, offrire un lavoro, è anche un’occasione per riflettere, in questo periodo di profonda crisi, sui grandi temi della trasmissione del lavoro, dell’economia politica e sulle relazioni tra economia e società, oltre che sulle opportunità di avviare politiche economiche alternative.
Oggi il pensiero dominante sembra assumere un atteggiamento diverso. Più che “offrire”, insegnare un lavoro, con la conoscenza dei “segreti”, della ricchezza di competenze; più che compiacersi, con fierezza e soddisfazione, nel vedere la diffusione di un bene sociale, di un patrimonio acquisito, sembra prevalere la scelta di concentrare in pochi il sapere, la titolarità, il controllo. A qualcuno non interessa trasmettere, se non in particolari settori, la competenza necessaria; si procede separatamente, ma senza avere la visione globale del proprio lavoro.
Si è soltanto esecutori, realizzatori del sapere altrui, senza la condivisione della conoscenza. Si usufruisce di un sistema operativo, ma non si diventa partecipi delle scelte, delle opportunità nuove che quel lavoro sta presentando. Su questo modo di pensare e di procedere, il lavoro perde la sua dignità e diventa soltanto una parentesi di tempo occupato; fa perdere anche la dignità e la qualità della persona, considerata soltanto un meccanismo funzionale al potere, economico, sociale e politico di pochi. Perché la fatidica frase: “Le faremo sapere…” non rimanga soltanto il prolungamento di un’illusione, ma diventi carica di una promessa di partecipazione attiva e di scambio di saperi, occorre una sterzata culturale, economica, politica. Chiede una seria riflessione nel domandare fino a che punto, imprenditori e lavoratori, sono disposti ad assumersi più responsabilità condivise, fino a che punto si è disposti a voler crescere di qualità e di dignità o se la finalità, degli uni e degli altri, è soltanto un maggior guadagno.
La posta in gioco per il tempo a venire non può più essere quella individualista: “questa cosa non mi riguarda, non ti riguarda…” o “impegnati tu, io ho fatto la gavetta per conto mio; adesso tocca a te. E cerca di non fare nulla che possa distruggere i risultati raggiunti”…
L’atteggiamento richiesto è quello, a partire dalla famiglia fino alle istituzioni pubbliche: riconoscere che qualsiasi cosa può essere migliorata facendo tutto il possibile per renderla, insieme, sicura ed efficace. In qualsiasi ambito progettiamo prodotti, servizi o viviamo relazioni o esperienze, abbiamo sempre la possibilità di investire energie e risorse per cambiare pensiero e azione. Allora “Le faremo sapere…” per un lavoro “offerto”, condiviso, responsabile.