La salute del corpo e la pace del cuore
Leggi l'omelia del Vescovo Pierantonio pronunciata nella chiesa di San Francesco per il rito dei ceri e delle rose
Siamo giunti alla grande solennità dell’Immacolata Concezione, tanto cara alla tradizione cristiana. Potremmo dire che questa è la festa dell’umanità redenta e santificata, riscattata dal male e trasfigurata nella gloria di Dio. Immacolata è la Beata Vergine Maria nel suo mistero di trascendente bellezza, preservata dalla colpa delle origini e dalle sue amare conseguenze. Tota pulcra es Maria – canta la liturgia cristiana – et macula originalis non est in te. Fissando lo sguardo su di lei l’umanità si sente consolata, perché in lei contempla l’opera della grazia e il proprio ultimo destino. Siamo infatti anche noi chiamati sin d’ora ad essere santi e immacolati al cospetto di Dio nella carità e tali saremo pienamente al termine del nostro pellegrinaggio terreno nella misura in cui avremo consentito alla potenza di Dio di operare in noi.
Al momento presente, tuttavia, la gloria del Signore risplende nell’universo in modo imperfetto. Ora noi vediamo – dice san Paolo – come in uno specchio deformante: la realtà è infatti segnata da quel male originario da cui è stata preservata per grazia la Beata Vergine Maria e la nostra conoscenza, a sua volta ferita, appare incapace di cogliere la verità delle cose nella sua dimensione più ampia e più profonda. La storia è cammino compiuto dall’umanità nel chiaroscuro del mondo, dove il grano e la zizzania crescono insieme e dove il cuore e la mente sono raggiunti da lampi di luce mentre procedono come a tentoni.
Giungiamo a questa festa dell’Immacolata, che nella tradizione bresciana è anche il momento dello scambio delle rose e dei ceri tra il sindaco e il vescovo, con il fardello pesante di un’esperienza dolorosa purtroppo non ancora conclusa. La pandemia che ancora imperversa a livello mondiale ha colpito il nostro territorio e la nostra gente, soprattutto la scorsa primavera, con estrema durezza, aprendo ferite che lasceranno cicatrici profonde. Non era mai capitato alla nostra generazione di vivere con una simile cruda intensità l’esperienza della malattia su vasta scala, con conseguenze così pesanti a livello personale e sociale.
Subendo la perdita di tante persone care, vedendo la sofferenza di molte altre, ci siamo meglio resi conto del grande valore della vita e della salute e insieme della lezione che porta con sé l’esperienza della malattia. Su questo aspetto vorrei fermare un poco la nostra attenzione in questa festa che vede unite la comunità ecclesiale e quella civile. Vorrei offrire qualche spunto di riflessione sul bene della salute e sugli effetti della malattia.
Quando c’è la salute c’è tutto – si sente spesso dire. Un modo per esprimere la giusta convinzione che la salute è più importante di tutte le cose che possediamo. È quanto pensa anche la sapienza biblica, che nel libro del Siracide così si esprime: “Salute e vigore valgono più di tutto l’oro; non c’è ricchezza migliore della salute” (Sir 30,15-16). Per la salute propria e dei propri cari si è disposti a fare enormi sacrifici, privandosi dei propri beni fino al limite estremo.
Salvaguardare la salute è dunque essenziale. E questo avviene a livello individuale e sociale anzitutto attraverso l’impegno a difenderla mediante un’azione seria, decisa e intelligente di prevenzione. La salute può essere infatti compromessa dalla carenza del nutrimento necessario, da condizioni di lavoro inadeguate, da ritmi di vita insostenibili, dalla contaminazione dell’ambiente, da abitudini sconsiderate.
Quando poi, in modo più o meno responsabile e per ragioni che potrebbero essere molto diverse, sopraggiungono la malattia o l’indebolimento fisico, ecco necessaria la cura, il bisogno di affidarsi a chi è in grado di aiutarci. Si comprende allora immediatamente e chiaramente l’importanza della medicina e in particolare dei medici, della loro competenza, della loro professionalità, della loro sapienza. “Onora il medico per le sue prestazioni – dice ancora il Libro del Siracide – perché il Signore ha creato anche lui. Dall’Altissimo infatti viene la guarigione e anche dal re egli riceve doni. La scienza del medico lo fa procedere a testa alta, egli è ammirato anche tra i grandi” (Sir 38,1-6). La società avrà sempre bisogno dei suoi medici e sarà sempre loro grata. La recente esperienza della pandemia ha dimostrato in modo ancora più evidente e su larga scala quanto sia indispensabile questa professione. Salvare la vita e ridare salute è la loro vocazione e la loro missione: e questo noi abbiamo visto, nei mesi bui in cui il contagio infieriva. Cogliamo qui l’occasione, una volta di più, per rinnovare a loro il nostro sincero ringraziamento: pensiamo ai medici degli ospedali, ma anche ai medici che operano sul territorio, che entrano nelle case, e a quelli che assistono gli anziani nelle case di riposo.
Ogni medico sa bene, tuttavia, che non basta la buona volontà e il sacrificio del singolo. La cura dei malati domanda un’organizzazione seria a livello sociale, delle strutture adeguate, un sistema accuratamente impostato. Ai medici che operano nei reparti ospedalieri si affiancano gli infermieri e agli uni e agli altri danno supporto tutte le altre figure che vanno sotto il nome di operatori sanitari. Sono questi che rendono efficiente le grandi strutture ospedaliere: grazie ad esse, in sinergia con i numerosi ambulatori sul territorio, la salute di tutti viene salvaguardata.
Anche su questo versante la pandemia ha reso ancora più evidente una verità fondamentale: se la cura esige organizzazione, l’organizzazione richiede collaborazione. È decisivo unire le forze a farlo con determinazione e intelligenza. Così è avvenuto in particolare nella nostra città di Brescia tra Spedali Civili, Fondazione Poliambulanza e Gruppo San Donato, le tre maggiori strutture ospedaliere presenti sul nostro territorio, quando l’emergenza sanitaria si è fatta drammatica. Ed è davvero significativo che queste tre strutture si siano ora unite nell’offerta dell’olio che farà ardere quest’anno la lampada del Santissimo Sacramento in questa Chiesa di San Francesco. Un segno che personalmente apprezzo molto e che suggella un’esperienza di reciproco sostegno che oso definire esemplare.
Pensando al valore della salute e alla necessità della cura, un punto in particolare vorrei sottolineare: sappiamo bene, purtroppo, che il più alto numero di vittime della pandemia non ancora debellata si è registrato tra le persone anziane. Non è difficile comprenderne le ragioni: la logica dei fenomeni è evidente. Ma la logica è fredda. È invece il calore della vita che ci deve guidare. Esso ci ricorda che il debole è sempre il più esposto. Ora, la debolezza di chi è anziano si manifesta proprio nella precarietà della salute. Chi è avanti negli anni ha bisogno di aiuto, desidera la vicinanza degli altri, soprattutto dei suoi cari, ma deve anche affidarsi al sostegno della società con i suoi servizi e i suoi farmaci. Sia dai propri cari che dalla società la persona anziana si attende comunque anzitutto il rispetto e l’affetto. La risposta alla fragilità degli anziani è la solidarietà attenta e amorevole, nella quale trovano la giusta collocazione la professionalità e la ricerca.
È una lezione di vita che ci è giunta chiara e forte dall’emergenza che abbiamo vissuto. C’era forse bisogno di riceverla. In un società che in prospettiva vedrà aumentare il proprio numero di anziani, occorre prepararsi a garantire loro un sostegno che abbia l’aspetto della cura affettuosa per la loro precaria salute. Se l’attuale sistema sanitario appare sostanzialmente ben impostato sul versante dell’assistenza sanitaria in caso di malattia in età giovanile e adulta, qualche serio interrogativo sorge quando immaginiamo un accompagnamento degli anziani nel tempo oggi più brevissimo della loro terza e quarta età. Il rischio è che la giusta presa a carico della loro condizione di fragilità vada a pesare pressoché totalmente sulle spalle dei familiari e renda estremamente difficile la condizione degli uni e degli altri.
Un ultimo pensiero ritengo meriti attenta considerazione. È un pensiero che ci conduce nel cuore dell’esperienza della malattia e prova ad affrontare interrogativi importanti. La malattia causa dolore e sofferenza, insieme a un sentimento di paura. Il dolore e la sofferenza di qualsiasi genere sono da considerare assolutamente negativi e come tali vanno decisamente contrastati: sono infatti esperienza di morte, conseguenza di uno sconvolgimento del disegno originario di Dio. Nel racconto biblico della creazione non c’è traccia del dolore: tutto è armonia e perfezione di bene. La Parola di Dio è unanime nel dichiarare che Dio non ha piacere che l’umanità soffra. In quanto causa di dolore e sgomento, la malattia non rientra dunque nei suoi disegni. Essa è espressione di quella caducità del creato di cui parla san Paolo quando descrive il mondo ferito dal peccato delle origini, quel peccato dai cui l’Immacolata Concezione è stata preservata.
Dunque la malattia in se stessa non è un bene, eppure i suoi effetti non sono semplicemente negativi: essa segnala il limite e la fragilità come elementi costitutivi della nostra persona e quindi ci ricorda la giusta misura di noi stessi; ci purifica dalla presunzione orgogliosa di sentirci grandi e potenti a partire dai beni che possediamo, dalla cultura che possiamo esibire o dalla posizione che rivestiamo; è un aiuto a guardare in alto per riconoscere che c’è una dimensione trascendente, l’unica in grado di salvaguardare la nostra dignità, perché disponibile ad accoglierci con il nostro limite nell’abbraccio di un amore misericordioso.
Comincia così ad aprirsi una prospettiva di riscatto che consente all’esperienza della malattia di non cadere preda della disperazione. È sempre la Parola di Dio a insegnarci che è possibile vivere attraverso la malattia un’esperienza singolare d’amore: perdere la salute ma non cessare di amare. La forma d’amore nella malattia è l’offerta della propria sofferenza per il bene del mondo e l’effetto visibile di una simile offerta consiste nella serenità con cui si accetta la propria condizione.
Si deve riconoscere che la malattia non sempre si può vincere: a volte è necessario convivere. La vecchiaia è il tempo in cui questo accade inesorabilmente. Si sarà in grado di accettare questa condizione? A questo livello, infatti, i farmaci e i servizi sociali non risolvono il problema. Soltanto l’atteggiamento interiore lo fa. All’esperienza della fragilità e del dolore che provoca la precarietà della salute risponde la pace del cuore. E questa deriva dalla percezione di essere amati da Dio e dalla capacità di amare a nostra volta nel nome suo, facendo della propria vita un’offerta proprio a partire dalla sofferenza che si sta sperimentando.
Così diventa chiaro che la salute è certo importante ma non è la cosa più importante della vita. C’è qualcosa che vale di più e che consente di non disperare anche quando la salute appare inesorabilmente compromessa. “Amai la sapienza più della salute” – si legge nel Libro della Sapienza (Sap 7,10). In prospettiva biblica la sapienza è la piena sintonia con Dio da cui deriva il giusto modo di guardare alle cose: essa genera fortezza e consolazione interiore, che insieme prendono il nome di pace, la pace della coscienza.
Il nostro benessere è prima di tutto ed essenzialmente un benessere interiore. Mens sana in corpore sano – dicevano gli antichi. Non avevano torto. A condizione però di dare alla parola mente il suo significato più profondo: non la semplice lucidità del pensiero – nel linguaggio popolare “l’esserci con la testa” – ma la retta coscienza, cioè il giusto modo di sentire e di considerare la realtà. La coscienza è la mente unita al cuore, un cuore buono, reso tale dalla grazia di Dio Il cuore e il corpo vanno insieme quando si parla di salute nel suo senso più ampio, quando si pensa ad una persona che sta bene. “Il timore del Signore – dice ancora il Libro del Siracide – fa fiorire la pace e la salute” (Sir 1,16). Una profonda esperienza di Dio custodisce il cuore e il corpo in serena unità. È quanto ci insegnano i Vangeli quando ci presentano Gesù che guarendo i malati che lo invocano dice loro: “La tua fede ti ha salvato”. Guariti ma soprattutto salvati, restituiti alla verità di se stessi, accolti in una relazione d’amore che dà pace al cuore, stretti nell’abbraccio del Cristo redentore, che ha rivelato al mondo il volto buono di Dio.
Ecco dunque ciò che vorremmo chiedere a Dio per intercessione della Beata Vergine Immacolata in questo solenne giorno di festa, pensando insieme al cammino della Chiesa e della società, alla vita della nostra amata città di Brescia: la salute del corpo e la pace del cuore. E poiché ogni dono è anche compito, con l’aiuto della Madre di Dio ci impegniamo, ciascuno per la sua parte, a garantire vicinanza e cura a chi è più debole, in nome di quella amorevole solidarietà di cui è segno e sorgente il Natale del Signore. Ad esso noi guardiamo, proseguendo lieti e grati il nostro cammino.