Il mio Paolo VI: un amico
Dal primo incontro nella parrocchiale di Ludriano a quelli in Vaticano
Era il 1958 e vidi per caso in tv (allora un oggetto raro riservato a pochi) la fumata bianca che annunciava la nomina di papa Giovanni XXIII. Non avendone viste altre, quella mi sembrò la più simpatica e buona. Era invece il 1963 quando, con in zucca qualche grano di sale in più, vedendo in tv la fumata bianca che comunicava al mondo l’elezione del Giovanni Battista Montini al Soglio Pontificio col nome di Paolo VI, mi sembrò qualcosa di assolutamente normale. Infatti, quel “bresciano” nato a Concesio e diventato prete a Brescia, che da lì in poi avremmo tutti chiamato Papa, io lo conoscevo. Non direttamente, ma tramite la zia suora Ancella della Carità, che quando per me era ancora il tempo dei giochi spensierati e dei sogni destinati ad avverarsi, me l’aveva fatto conoscere con la lettura quotidiana de “L’Italia”, il giornale dei cattolici, che di lui raccontava meraviglie. Non solo. Quel Papa, ovviamente molto prima di diventare “papabile”, un giorno di ottobre del 1954 era stato a Ludriano, il mio paese, per vivere col vescovo Giacinto Tredici, i conti Folonari (promotori della costruzione della nuova e bella chiesa) e la gente del paese la cerimonia della consacrazione dell’imponente parrocchiale (nella foto). Io c’ero, e tra i tanti ragazzini che andarono a salutarlo, io che ero stato presentato dal parroco come il figlio del falegname, trovai giusto dirgli che il mio nome era “Luciano”. Mi liquidò con un buffetto sulla guancia. Però, l’anno dopo, 15 maggio 1955, questa volta nella cattedrale di Brescia, dove era venuto per celebrare santa Maria Crocifissa Di Rosa, fondatrice delle Ancelle della Carità, a un anno dalla sua canonizzazione, al buffetto il Vescovo aggiunse anche due parole per raccomandarmi di “fare il bravo”. Otto anni dopo, 21 giugno 1963, quello che da tempo consideravo “il mio vecchio amico” si presentò al mondo col nome di Paolo VI assicurando che sarebbe stato il Papa del dialogo con tutti. Da quel momento Paolo VI, diventò il Papa a cui, purtroppo, mai avrei potuto stringere le mani e dirgli “ti voglio bene”. Invece, ebbi più di un’occasione per stringergli le mani e per sentirlo ripetere “la mia cara e amata Brescia”. Tengo per me le briciole di ricordi e quelle corone del rosario e medaglie che volentieri, a ogni visita, donava a chi aveva ventura di avvicinarlo. Non posso invece tenere per me le emozioni scaturite dall’udienza che Paolo VI concesse al Consiglio comunale di Brescia allora presieduto da Cesare Trebeschi, figlio del suo amico Andrea, alla quale ero stato invitato in rappresentanza de “ La Voce del Popolo” e di “RadioVoce”. Avendo portato con me un registratore, mi preoccupai di non lasciar cadere nel vuoto neppure una delle parole pronunciate dal Papa. Portai a compimento l’opera, ma quando già pregustavo la gioia di poter raccontare quel che non era scritto nei fogli ufficiali, un gendarme venne a ricordarmi che “è bene salvaguardare la forma ufficiale” pretendendo la consegna del nastro registrato. Allora il Papa mi confortò suggerendomi di attingere alla “buona memoria, che certo – mi disse – non le manca”. Il resto, essenzialmente fatto di memorie, ricordi, pensieri, parole rubate, scritti, immagini, briciole di sapere e di umanità avute in dono l’ho messo tra le pagine di un libro scritto per dire che “anch’io voglio bene al Papa, a questo Paolo VI… cittadino bresciano”, oggi Beato, domani Santo, che non smetterò mai di considerare, alla maniera di papa Francesco, “l’amico vero e sincero”.