Il mio Paolo VI: Montini e i lontani
A Milano Montini trovò una vasta comunità diocesana ben organizzata, ma ebbe da subito la consapevolezza che alla conta dei fedeli partecipanti alla vita cristiana mancavano tanti “lontani”, da lui individuati soprattutto in due categorie: gli intellettuali e la grande massa del mondo operaio. La testimonianza di mons. Vittorio Formenti
Negli anni Ottanta, tra i fedeli che partecipavano quotidianamente a una delle Sante Messe nella Basilica papale di San Pietro in Vaticano non mancava mai la figura minuta di un’anziana donna australiana. Era la Professoressa Rosemary Goldie. Dopo la celebrazione eucaristica scendeva immancabilmente nelle grotte vaticane soffermandosi a lungo davanti alla tomba di Paolo VI. Questo fino al suo rientro in terra australiana, dove tornò alla Casa del Padre comune il 27 febbraio 2010, a novantaquattro anni di età. Le cronache ecclesiali scrissero di lei: fu la prima donna chiamata personalmente da Paolo VI come uditrice al Concilio Vaticano II. L’avevo trovata come docente durante i miei studi alla Pontificia Università Lateranense. Al momento di stendere la mia tesi di laurea ebbe l’umiltà di chiedermi, in quanto bresciano, se potesse fungere da relatrice, ad una sola condizione: la tesi doveva riguardare una ricerca sul magistero di Giovanni Battista Montini come Arcivescovo di Milano. Paolo VI era da poco tempo “entrato nella luce”, per usare un’espressione a lui cara. Le tesi di laurea sul suo pontificato già si annunciavano numerose. La Professoressa Goldie riteneva che dovessero essere approfonditi gli antecedenti del pontificato. E mi affidò il compito di leggere in profondità documenti e gesti pastorali riguardanti la preoccupazione di Giovanni Battista Montini per “i lontani”. Cito questo termine come relativamente recente nella terminologia pastorale e con una connotazione bresciana: lo coniò don Primo Mazzolari in un volumetto pubblicato dall’Editore Gatti di Brescia nel 1938 con il titolo “I lontani, motivo di apostolato avventuroso”.
Ma a questo punto necessita una premessa. La decisone di Papa Pio XII di nominare il suo primo collaboratore come Arcivescovo di Milano nel novembre 1954 rappresentò un passaggio provvidenziale nel curriculum dell’allora Sostituto alla Segreteria di Stato. La lunga permanenza nella Santa Sede non gli aveva consentito una vera e propria esperienza pastorale, per cui gli otto anni trascorsi nell’arcidiocesi ambrosiana rappresentarono per lui un’apertura preziosa all’incontro con persone, gruppi, comunità parrocchiali e quant’altro. Un approccio che fornirà al futuro Papa la possibilità di gestire il Concilio con la straordinaria capacità che tutti conosciamo. A Milano Montini trovò una vasta comunità diocesana ben organizzata, ma ebbe da subito la consapevolezza che alla conta dei fedeli partecipanti alla vita cristiana mancavano tanti “lontani”, da lui individuati soprattutto in due categorie: gli intellettuali e la grande massa del mondo operaio. Gli uni e gli altri erano legati ad una consistenza numerica diversa: una élite gli intellettuali, ma con un peso specifico di sostanza, e intere masse di operai, abbacinati dalla montante suggestione del marxismo allora in preoccupante espansione. L’Arcivescovo a Milano si calò subito in una frenetica quotidianità di approccio pastorale alle parrocchie, ai gruppi, alle associazioni, con un costante colloquio con le Autorità civili dell’intera, vasta area ambrosiana, con la lucida consapevolezza che la Chiesa e lo Stato sono realtà ben distinte, ma altresì convergenti nella ricerca del bene comune delle persone. Non si può, a tale proposito, dimenticare uno dei suoi gesti profetici. Nella notte di Natale del 1955, il suo primo a Milano, non celebrò il pontificale negli splendori del duomo, bensì in una chiesa prefabbricata della periferia della metropoli, allora ben più di oggi emblema di povertà e degrado. Per lui quei fedeli rappresentavano i veri eredi dei pastori del Vangelo.
Sul tema dei lontani Montini è tornato con insistenza nelle corpose lettere pastorali che inviava all’arcidiocesi all’inizio di ogni quaresima. Dalla loro lettura emergono con chiarezza temi teologici e proposte pastorali fatti poi propri dai Padri conciliari e confluiti nei documenti finali dell’Assise ecumenica.
Tra le tante iniziative pastorali in favore dei lontani necessita citare due pietre miliari: la grande Missione cittadina del 1957 e l’VIII Settimana nazionale di aggiornamento pastorale, tenutasi proprio a Milano nel settembre 1958 sul tema precipuo “La Comunità cristiana e i lontani” che ha visto Montini impegnato in prima linea nella preparazione e nello svolgimento dei lavori. Pio XII gli farà pervenire un messaggio nel quale l’Arcidiocesi ambrosiana veniva definita “a nessuno seconda nell’impulso apostolico verso i lontani, per le sue opere di conquista nei più diversi campi, da quello culturale a quello sociale, a quello missionario”.
La missione di Milano resta, a distanza di tanti anni, un vero monumento di pastoralità, il cui merito principale si deve all’Arcivescovo, il quale chiamò da tutta Italia i migliori annunciatori della Parola durante il periodo liturgico dell’avvento. Destinatari: in primis “quei settori della popolazione dove la coscienza religiosa non si può supporre, anche se composta da persone che hanno ricevuto il battesimo”. Così si legge nell’annuncio dell’evento. Durante tutta la missione Montini si mise coraggiosamente in gioco, recandosi più volte a dialogare con le maestranze degli stabilimenti in quella che allora veniva definita la Stalingrado rossa italiana: Sesto San Giovanni. E l’accoglienza, è ben risaputo, non fu sempre un passaggio sui tappeti.
Tale straordinario impegno di dialogo a tutto campo per Montini, divenuto Papa, si tradurrà in ortoprassi nella sua prima lettera enciclica, l’“Ecclesiam suam”, scritta interamente di suo pugno e pubblicata il 6 agosto 1964, festa liturgica della Trasfigurazione del Signore, la stessa festa che, quattordici anni dopo, segnerà il tramonto terreno del “Papa del Dialogo”. I giornali d’allora avanzarono varie ipotesi sull’enciclica, chiedendosi se si dovesse definire “pacelliana” o “roncalliana”, o in quale proporzione dosasse l’eredità dei due immediati predecessori. Credo che quelle parole dette e scritte sull’enciclica abbiano comunque colto la novità del dialogo che Paolo VI ha inteso stabilire con il mondo contemporaneo, rappresentando la premessa di uno dei documenti di più ampio respiro pastorale del Concilio Vaticano II, la “Gaudium et spes”. Scrisse allora Jean Guitton: “La parola dialogo diventa in Paolo VI una parola onniriflettente, sole, cardine, arpione, radice, centro, mistero, sintesi di idee, mondo di possibili… Il suo sarà il pontificato del dialogo con tutti gli uomini”. E così è stato.