Monari: “Essere gli uni con gli altri”
L'omelia pronunciata dal vescovo Monari in occasione della S.Messa della notte di Natale
Il racconto della nascita di Gesù stupisce anzitutto perché non contiene assolutamente niente di straordinario: un censimento, il viaggio da Nazaret a Betlemme, un parto in condizioni disagiate e infine l’immagine semplicissima di “un bambino avvolto in fasce, che viene deposto in una mangiatoia.” Nessun miracolo, nessuna enfasi; siamo davanti a uno spaccato di esistenza umana semplice, povera, che si sviluppa secondo le leggi del mondo. Subito dopo, però, la prospettiva cambia in modo radicale. Tutto viene immerso in una luce splendida, con parole vigorose, solenni. Un angelo porta l’annuncio della nascita di Gesù ai pastori: il bambino che è nato è il Salvatore, il Messia atteso per secoli da Israele, addirittura il Signore, cioè Dio stesso. A questo primo annuncio, già impressionante, se ne aggiunge un altro, ancora più glorioso, proclamato non da un singolo angelo ma da una moltitudine dell’esercito celeste: la nascita di Gesù è glorificazione di Dio nell’alto dei cieli; è dono di pace offerto dall’amore di Dio agli uomini. L’interessante è che in tutte e due le parti del racconto ritorna il medesimo segno; un bambino avvolto in fasce e deposto nella mangiatoia.
Proprio questo accostamento, nella sua stranezza, ci aiuta a comprendere il Natale. Natale è la venuta di Dio nel mondo. Ma qual è il suo segno? Lo schierarsi di un esercito possente? Un convegno dei re della terra? No: un neonato, messo in una mangiatoia. La rivelazione di Dio avviene nel tessuto normale, anzi povero, di un’esistenza umana; Dio, infinitamente grande, non teme di farsi piccolo; un’esistenza umana, con tutta la sua fragilità e i suoi limiti, è capace di esprimere il mistero di Dio. Qualcuno ha detto che il mistero del Natale deve compiersi nella vita di ogni uomo: Gesù può nascere a Betlemme cento volte, mille volte; ma se non nasce in te non è ancora il tuo Natale. Ma che cosa significa: Gesù deve nascere in noi? Dipende forse dalla commozione con cui ammiriamo un presepe? Dobbiamo lasciarci trascinare dal fascino che hanno i simboli natalizi – la luce, i canti, i doni, l’albero? Certo, tutto questo ha il suo valore, ma non basta. Gesù è Dio che assume una carne umana; per noi è davvero Natale quando la nostra carne umana assume in sé qualcosa del mistero di Dio. Lo chiediamo in una preghiera di colletta: “O Dio, che in modo mirabile ci hai fatti a tua immagine, e in modo più mirabile ci hai redenti, fa’ che possiamo condividere la vita divina del tuo Figlio che oggi ha voluto assumere la nostra natura umana.”
Condividere la vita divina del Figlio di Dio. La vita di Gesù è una vita perfettamente umana; ma, nello stesso tempo, proprio la sua vita umana è mossa dallo Spirito di Dio e quindi è vita che attua i desideri di Dio e rivela il mistero di Dio. Se qualcuno mi chiede di mostragli come sia fatto Dio, posso solo dirgli: guarda Gesù. Siccome è uomo, il tuo sguardo lo può raggiungere, la tua mente lo può comprendere, il tuo cuore lo può amare; ma siccome è Dio, quello che tu vedi è rivelazione del volto stesso di Dio. Le conseguenze di questo fatto sono immediate: se tu segui Gesù, che puoi vedere, la tua vita diventerà progressivamente più conforme al mistero di Dio, che non puoi vedere. Nella misura in cui avverrà questa trasformazione, il Natale di Gesù diventerà il tuo Natale. Si può dire che Gesù nasce dentro di noi – ma non nel senso di un’esperienza magica, fatta di sentimenti eccessivi; nel senso invece di una vita che, invece di essere ‘mondana’ e cioè tutta tesa a conquistare traguardi mondani – come ricchezza o piacere immediato o posizioni di prestigio – sa vivere “con sobrietà, con giustizia e con pietà” in questo mondo custodendo una speranza che va oltre il successo nel mondo. Così ci ha insegnato san Paolo nella seconda lettura.
In concreto, il Natale ci chiede un duplice impegno: il primo è quello di comprendere sempre meglio l’amore di Dio per noi e lasciarci riempire dalla gioia che questo amore produce. Dio è con noi; si è abbassato fino al livello della nostra esistenza; il suo amore per noi è reale e senza misura; non ci sono e non ci saranno mai situazioni così sbagliate da impedire all’amore di Dio di raggiungerci. Questa, però, è una convinzione che può rafforzarsi e fiorire in noi solo con una preghiera di ringraziamento che rimanga costante nel tempo, tutti i giorni, sia quando la vita appare brillante, sia quando la vita c’impone pesi gravi. Quando si è fatto uomo, Dio non ha scelto per sé un’esistenza privilegiata, immune da sofferenze, da fatiche, da incomprensioni. Al contrario, si è fatto povero, nostro servo fino ad accettare la morte dolorosa e umiliante della croce; da questo si vede la serietà della sua scelta di essere “Dio con noi”; ma questo ci permette di credere che Dio è con noi anche in mezzo alle tribolazioni. Non è facile; non è facile continuare a credere nell’amore di Dio quando si è nella sofferenza, e in una sofferenza non meritata. La via obbligata è quella del ringraziare; ringraziare ogni mattina, per il fatto stesso di aprire gli occhi ed esistere. L’avevamo imparato da bambini: “Mio Dio, ti adoro con tutto il cuore, ti ringrazio di avermi creato, fatto cristiano e conservato in questa notte.” Solo la preghiera di ringraziamento ci custodisce dallo scetticismo e dal cinismo, dalla tristezza che si attacca al cuore come una muffa.
Accanto a questo il Natale ci chiama a “essere gli uni con gli altri”, a diventare gli uni per gli altri segni magari piccoli, deboli, ma veri del fatto che “Dio è con noi”: l’ascolto sincero degli altri, la simpatia, la stima, l’affabilità, la pazienza, la generosità… insomma tutte le virtù che stringono gli uomini con vincoli di solidarietà, di condivisione. Gli angeli hanno offerto ai pastori un segno della vicinanza di Dio indirizzandoli al bambino di Betlemme; oggi la nostra stessa vita può e deve diventare un segno che Dio ci è vicino e che è vicino soprattutto a coloro che sono soli. Ma c’è un tranello che consiste nella tendenza istintiva a sottolineare puntigliosamente quello che manca finendo così per non vedere quello che c’è. Ci immaginiamo come dovrebbe essere un’umanità davvero fraterna, nella quale ciascuno apre il suo cuore ai bisogni materiali e spirituali dell’altro; poi facciamo il confronto con la realtà e ci saltano agli occhi le cose che non vanno: le indifferenze, le dimenticanze, le invidie, le cattiverie… L’effetto è che in questo modo il nostro cuore diventa acido, si nutre di risentimenti e rischia di inaridire a sua volta. Invece di sanare la tristezza del mondo vi aggiungiamo anche la nostra.
La celebrazione del Natale può essere un antidoto. Abbiamo ascoltato il profeta Isaia: “Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse. Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato l’esultanza.” Anche solo ascoltare parole come queste ci fa bene; in mezzo al velo del timore si apre qualche squarcio di consolazione, di speranza “perché un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio… la pace non avrà fine nel suo regno che egli viene a consolidare e rafforzare con il diritto e la giustizia, ora e sempre. Questo farà il Signore degli eserciti.” La gioia è contagiosa, così come la tristezza. Per questo un elementare atto di amore è custodire la gioia in modo da suscitarla negli altri. Non la gioia pacchiana che ha bisogno di stimoli sempre nuovi per conservarsi, ma la gioia riconciliata, quella che proviene dalla vita stessa nel suo mistero e nella sua fecondità; la gioia che si nutre di un angolo di cielo azzurro, di un sorriso amico, di un momento sereno… che si nutre cioè di quelle piccole cose che Dio continua a seminare nel mondo come sorgenti di sicurezza e di fiducia.
Il Martirologio Romano, alla data del 25 dicembre, recita così: “Trascorsi molti secoli dalla creazione del mondo… e molti secoli da quando, dopo il diluvio, l’Altissimo aveva fatto risplendere tra le nubi l’arcobaleno, segno di alleanza e di pace; ventuno secoli dopo che Abramo, nostro padre nella fede, emigrò dalla terra di Ur dei Caldei; tredici secoli dopo l’uscita del popolo d’Israele dalla terra d’Egitto sotto la guida di Mosè; circa mille anni dopo l’unzione regale di Davide; nella sessantacinquesima settimana secondo la profezia di Daniele, all’epoca della centonovantaquattresima olimpiade; nell’anno settecentocinquantadue dalla fondazione di Roma; Nel quarantaduesimo anno dell’impero di Cesare Ottaviano Augusto, mentre su tutta la terra regnava la pace, Gesù Cristo, Dio eterno e Figlio dell’eterno Padre, volendo santificare il mondo con la sua piissima venuta, concepito per opera dello Spirito Santo, trascorsi nove mesi, nasce in Betlemme di Giuda dalla vergine Maria, fatto uomo: Natale di nostro Signore Gesù Cristo secondo la carne.” Ecco; se riusciamo a intuire l’armonia che unisce questo annuncio solennissimo con il bambino avvolto in fasce di Betlemme, siamo vicini a comprendere il Natale; se poi accogliamo quel bambino come fosse una parola di Dio rivolta proprio a noi per renderci consapevoli del valore e del senso della nostra vita, allora questo diventa anche il nostro Natale.