Don Michele Rinaldi: Carico di desideri
Michele Rinaldi, oggi diacono a Monticelli Brusati, sarà presto presbitero. Nato a Lovere l’8 aprile 1989, abita a Marone con la famiglia. Dopo il diploma di ragioneria, si laurea alla magistrale di lingue, letteratura e culture straniere dell’Università Cattolica di Brescia.
Dove e come è nata la tua vocazione?
La mia vocazione nasce in modo semplice e ordinario, in parrocchia e in oratorio. Non è una folgorazione immediata, ma nasce gradualmente, con molta calma. Pensavo di studiare e poi andare a lavorare: solo poi, ascoltando la voce di Gesù, ho capito che il Signore aveva qualcosa di importante da dirmi. Mi stava chiamando ad uscire da me stesso per offrire anche agli altri quel dono d’amore. Così, ho pensato di offrire un po’ del mio tempo, diventando catechista e volontario. Continuando a coltivare la relazione con il Signore, mi sono accorto che questo non bastava più: con pazienza, ho capito che il Signore voleva che imparassi ad offrire la mia vita attraverso il cammino del Seminario per diventare prete.
Quali sono state le reazioni della tua famiglia e dei tuoi amici alla notizia della vocazione?
La mia famiglia l’ha accolta con un certo stupore, misto alla preoccupazione che provano tutti i genitori quando i figli spiccano il volo. Era una notizia che implicava un cambio di vita radicale: temevano perdessi la libertà, che soffrissi e rimanessi solo. Però, vedendo la felicità nei miei occhi e nel mio cuore, hanno subito capito che era la strada per me e mi hanno accompagnato con vicinanza e pazienza. Forse, è stata più una mia fatica, perché temevo di farli soffrire o che non capissero la mia scelta.
Quindi non hai mai avuto paura di affrontare questo percorso da solo?
Ho avuto alcuni timori iniziali: “Sarò all’altezza?”, “sarò in grado di fare quanto mi verrà chiesto?”. Sono dubbi naturali. Sarebbe forse preoccupante non averli. Però, ho imparato a mettermi nelle mani del Signore e a dirmi: “Se il Signore ti chiama in quel posto, ti darà anche la forza per affrontare le sfide e gli ostacoli del momento”.
Hai trovato degli ostacoli per la tua scelta?
No, non ho subito ostilità. Tuttavia, ascoltando altre testimonianze, so di giovani che hanno vissuto momenti di fatica. Nonostante le cicatrici rimangano, credo che il Signore sia medico delle anime e dei corpi: offre il suo balsamo e aiuta a diventare come i diamanti grezzi che, inizialmente, sono opachi e poi, una volta lavorati, diventano splendenti.
Hai scelto la laurea in lingua, letteratura e culture straniere: a quale lavoro ambivi?
La mia carriera universitaria mi aveva portato a viaggiare un po’ come un treno ad alta velocità. Avevo pensato che, dopo gli studi, sarei finito a lavorare in un ufficio, nel turismo o come insegnante di lingue. Il Signore, invece, mi ha chiamato a fare altro.
Quali sono le esperienze di volontariato che porti nel cuore?
Non posso dimenticare la Settimana Santa a Lourdes, insieme al Centro Volontari della Sofferenza. Lì, ho imparato un’altra lingua: la lingua del cuore, che è universale. È stata un’esperienza forte, condivisa con altri giovani. Ho compreso che il bene è diffusivo: c’è ancora tanto bene anche se spesso non ce ne accorgiamo. E poi ho imparato la grammatica del dolore, quella dei nostri ammalati che vivono la sofferenza come un’esperienza di offerta. In un contesto in cui si parla di sofferenza come di un mondo in cui non vale la pena vivere, questi malati ci insegnano l’alto valore della vita.
Ci sono esperienze che, durante il percorso in Seminario, ti hanno colpito?
Sì, la sessione di studi in Terra Santa, nel 2016. Io e altri ragazzi siamo stati “sfruttati” come interpreti e traduttori. È stata un’esperienza che ha lasciato il segno, sia per la scoperta dei luoghi santi, sia per la forte dimensione comunitaria con la famiglia del seminario.
Fra poco sarai ordinato. Che sensazioni?
Alla vigilia dell’ordinazione presbiterale manca pochissimo. Sono molto contento: la gioia che mi abita è quella del sentirsi amato dal Signore che mi sta accompagnando. Sono molto grato a Lui per il dono che mi ha fatto e per le persone che ha messo sul mio cammino. Sono carico di desideri, di sogni e di aspirazioni. Ho tanta voglia di fare del bene. Ci sono anche timori naturali: il dono che ti fa il Signore è grande, ma richiede anche tanta responsabilità e attenzione nell’andare verso i fratelli. Sono però certo che il Signore non mi lascerà solo.
Abbiamo attraversato un momento difficile. La fede ti ha aiutato a superare la pandemia?
La fede è una roccia, alla quale ci si può appoggiare nelle tempeste della vita. In questo clima, la fede certamente è un’ancora di salvezza. Se la pandemia ha messo in crisi i nostri legami di amicizia e familiarità con gli altri, la fede può aiutare, perché è la relazione per eccellenza. Se la tua amicizia con Gesù è sana e forte, puoi affrontare gli urti della vita con forza. Come si legge nel brano evangelico della tempesta sedata, il Signore è con noi sempre. A maggior ragione, fa sentire la sua presenza nei momenti bui.
Non sei spaventato dall’idea di diventare sacerdote in una società in cui l’aspetto religioso, spesso, passa in secondo piano?
Mi affaccio al ministero del prete in un panorama non certo facile. C’è un disinteresse, a volte anche un’ostilità. Il Signore però ci invita a non avere paura: “Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo”. Allora, affrontare questo panorama non deve spaventare: è una sfida, ma va colta come un’opportunità per costruire qualcosa di bello. Mi affaccio al mondo contemporaneo con tanta speranza, come ci ricorda il nostro concittadino Paolo VI.
Hai parlato di “ostilità” nei giovani. Cosa ne pensi della blasfemia, spesso giudicata come “valvola di sfogo”?
I nostri adolescenti, a volte, vivono delle esperienze difficili: contesti familiari assenti, malattia, bullismo, ecc. In queste difficoltà, non è facile pensare che il Signore sia accanto e possa fornire aiuto. Un ragazzo può trovare una valvola di sfogo con una vita sregolata o un linguaggio non sempre adatto. Ma credo che spesso i giovani non si rendano nemmeno conto del peso del loro linguaggio. È una sfida per gli educatori: insegnare ai nostri giovani la bellezza delle parole luminose e generatrici di vita.
Pensi che questo allontanamento dalla religione possa essere dovuto a tutti quegli aspetti che hanno messo in cattiva luce la Chiesa?
L’annuncio del Vangelo si basa sulla testimonianza. Certo, spesso, è stato sporcato o silenziato. È inutile ricordare gli episodi che hanno giocato a sfavore della testimonianza e della trasmissione della parola di vita. Sono episodi che vanno stigmatizzati: chiamarli, coraggiosamente, con il loro nome, ci permette di avere gli strumenti per poterli affrontare e risolvere. L’amore di Dio è sempre più forte del male.
Cosa diresti ad un giovane che sta cercando la propria vocazione?
Mi trovo alla vigilia della mia ordinazione con un profondo sentimento di gratitudine a Dio e alla Chiesa che mi ha accompagnato in questo cammino. Rivolgendomi a tutti quei giovani che avvertono nel loro cuore la chiamata di Gesù, li invito a non avere paura. Fidatevi di Gesù: è un amico che non tradisce mai, è fedele e ha pazienza, è un galantuomo e aspetta che tu sia pronto ad accogliere il suo invito.
C'è un brano del Vangelo al quale ti senti più legato?
Il brano di Vangelo che mi sta guidando è tratto da Giovanni 6, 51: “Io sono il pane vivo disceso dal cielo, se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la carne per la vita del mondo”. Mi colpisce perché mi ricorda il dono di vita che Gesù fa attraverso l’eucarestia: rende colui che riceve il corpo di Cristo, lui stesso il corpo di Cristo. Mi ricorda la mia vocazione, quella di essere corpo di Cristo, membro della Chiesa e, a mia volta, capace alla maniera di Gesù di offrire la mia carne e la mia vita per il mondo.
*Ha collaborato Giovanni Maria Galiberti.