Diventare vescovo? Beh, non è una cosa grave...
Intervista a don Marco Busca a poche ore dalla sua ordinazione episcopale. Il suo stato d'animo riassunto dalla risposta dei suoi genitori dopo la notizia della sua nomina. L'ordinazione si terrà in Cattedrale a Brescia, domenica 11 alle 16.30 alla presenza del card. Re, di 12 Vescovi, di 180 sacerdoti e di tantissimi fedeli. Molto numerosa anche la delegazione in arrivo da Mantova
Mons.Busca e i giornalisti
Un cardinale (Giovanni Battista Re), sedici vescovi e 200 sacerdoti concelebranti (molti da Mantova), più le centinaia di amici,
conoscenti e semplici fedeli che saranno in Cattedrale per fargli sentire il
loro affetto e la loro vicinanza. Sono questi i numeri (che potrebbero crescere
ancora nelle ultime ore) comunicati dalla “macchina” organizzativa sulla
celebrazione di ordinazione episcopale di don Marco Busca, che si terrà
domenica 11 settembre alle 16.30. Sarà mons Luciano Monari, assistito da mons.
Bruno Foresti (che da vescovo di Brescia lo ordinò sacerdote nel 1991) e da
mons. Roberto Busti (suo predecessore alla guida della Chiesa mantovana) a presiedere,
come vescovo ordinante, la celebrazione che sarà ricca di riti e di simboli.
Anche se la Chiesa e la comunità bresciana saranno idealmente riunite in
comunione con don Busca sotto le volte della Cattedrale, chi non potrà recarsi
a Brescia avrà modo di seguire la celebrazione grazie alla diretta di Radio
Voce e di Teletutto. Moltissimi anche i fedeli in arrivo dalla città virgiliana.
Se a Brescia, dunque, è tutto pronto per questa nuova pagina
gioiosa nella vita della Chiesa locale, interessante diventa, invece, conoscere
quale sia lo stato d’animo del vescovo “ormai prossimo”, come don Marco Busca
viva la vigilia di questa ordinazione e come guardi alla diocesi virgiliana di
cui prenderà ufficialmente possesso con l’ingresso del 2 ottobre prossimo. I
suoi pensieri, le sue attese e le sue preoccupazioni sono raccontati in questa
intervista concessa a “La Cittadella”, il settimanale diocesano di Mantova
Don Marco, manca ormai poco alla sua ordinazione episcopale. Quali sono i pensieri e lo stato d’animo di questi primi giorni?
Vorrei rispondere alla domanda
con un aneddoto confidenziale. La sera prima della ufficializzazione della
nomina sono andato dai miei genitori perché volevo essere io a dare la notizia a
loro. Li ho avvisati all’ultimo minuto e questa visita fuori programma li ha un
po’ insospettiti. Finita la cena ho condiviso con loro questa chiamata della
Chiesa e mio padre ha commentato così: “Beh non è una cosa grave. Noi pensavamo
fossi venuto a dirci che eri malato…invece devi diventare vescovo: dovrai
servire la Chiesa, come facevi prima, solo che adesso la famiglia è più
grande”. In questi giorni l’immagine che mi torna più spesso è quella di Cristo
che lava i piedi ai suoi discepoli nel cenacolo; e poi il grembiule che la
Chiesa mi chiede di cingere ai fianchi che adesso è diventato più grande perché
ci sono più fratelli da servire.
I sacerdoti, così come la gente, sono
oggi più che mai “travolti” da un cambiamento inarrestabile e veloce, non solo
della vita della gente, ma anche del loro stesso ministero. C’è un pensiero che
vorrebbe loro consegnare?
C’è una parola che è entrata
massicciamente nel vocabolario ecclesiale ed è la parola “organizzazione”.
L’equivoco è pensare subito che organizzare la Chiesa significhi mettere a
puntino le commissioni, la gestione delle strutture, la programmazione delle
attività pastorali. Ma l’anima della Chiesa è la comunione e questa è un dono
che viene da Dio, che passa ai credenti e modella le loro esistenze secondo una
nuova modalità di vivere insieme. La comunione è anzitutto una vita e non la
possiamo identificare subito con le strutture comunitarie. L’unica struttura
che Gesù ha istituito è la Cena che celebriamo in sua memoria, qui attingiamo
la vita nuova del Regno, che è appunto la comunione, e a partire
dall’accoglienza di questo dono della comunione nasce la comunità. Le opere e
le istituzioni della Chiesa servono nella misura in cui manifestano e fanno
scorrere tra le persone questa vita di comunione. Nella Chiesa i preti hanno un
dono di paternità: organizzano la vita dei cristiani perché sia una vita di
comunione a immagine della vita trinitaria. Questa missione non è anzitutto
un’impresa che un prete può realizzare da solo: si è padri nella misura in cui
si è ricettivi dello Spirito di Dio; solo così si possono generare uomini e
donne all’esperienza della vita nuova. L’attuale crisi pastorale della Chiesa
mi pare sia una crisi di paternità. Dove c’è un prete che ha il cuore di padre
attorno a lui si genera un movimento di relazioni fraterne e una creatività
della missione. Perciò il primo pensiero che voglio consegnare ai preti è
questo: partiamo dalle persone e non dalla gestione delle strutture. Il primato
è per l’incontro, le opere e le attività sono a servizio della vita delle
persone e della loro comunione. Continueremo a lavorare con impegno e sui
diversi fronti, ma un conto è affaticarsi per organizzare delle attività affinché
riescano bene e altra cosa è offrire una fatica d’amore per organizzare la
comunione della Chiesa e accompagnare le persone ad assimilare sempre più la
vita nuova ricevuta nel Battesimo.
La persona del vescovo spesso
diventa punto di riferimento anche per la comunità civile oltre che per quella
ecclesiale. Come immagina questo aspetto del suo ruolo a Mantova?
I cristiani condividono con tutti
gli uomini del loro tempo gli ambienti normali della vita: il lavoro, la
cittadinanza, l’economia, l’arte e la cultura, il tempo libero... La miglior
cosa che la chiesa può fare in favore del mondo è far vedere un modo nuovo di
vivere, di essere persone di comunione, liberate dalla paura della morte e
dalla mentalità che ne deriva per cui uno deve far di tutto per salvarsi, per
affermare che c’è, che ha un valore unico e che se vuole difenderlo deve
prevalere sugli altri. Gesù ha lasciato ai suoi discepoli anche un metodo di
presenza nel mondo: essere come lievito nella pasta. Credo che la Chiesa debba
anzitutto aiutare i credenti a mantenere la qualità “cristiana” della loro
presenza nel mondo. Sul lavoro, ad
esempio, un cristiano è mescolato con tutti gli altri e lo si può individuare
perché porta una capacità di comunione, che viene percepita a motivo dello stile
con cui si relaziona con l’ambiente, a cui si unisce una competenza
professionale che suscita stima. Il lavoro è un grande luogo di convivenza che
può diventare anche un ambito di evangelizzazione: mentre si lavora gomito a
gomito si condivide non solo l’esperienza ma anche la sapienza della vita, che
passa attraverso semplici scambi di idee per commentare ciò che accade. Oltre
alla professionalità c’è anche la
cittadinanza come ambito in cui la Chiesa può aiutare i cristiani laici a
maturare un modo costruttivo di essere nel mondo. I cristiani non devono tacere
rispetto alle vicende e alle sorti della storia e lo fanno secondo la loro
indole propria, che è quella di parlare dall’interno della convivenza umana. Come
tutti i cittadini, i cristiani parlano e fan proposte in nome di tutti quelli
che vivono in un medesimo territorio. Condividono con loro le stesse difficoltà
e la ricerca delle soluzioni migliori.
Un pensiero a quanti si sentono
parte della Chiesa e uno a quanti, per varie ragioni, la sentono invece
distante o estranea?
A chi vive un’appartenenza alla Chiesa suggerisco di sentire che questa è una grazia, cioè un dono di Dio, e non l’esito di uno sforzo individuale. Mi auguro che per tutta la Chiesa quest’anno giubilare non rappresenti una “parentesi di misericordia” che si chiude tra qualche mese, ma che prosegua sull’onda della riforma della Chiesa di cui parla Papa Francesco. La misericordia non è un sentimento di benevolenza che Dio riserva all’uomo in un tempo eccezionale come è quello del giubileo. La misericordia è l’unico nome capace di esprimere come vive Dio in sé stesso e verso noi uomini: Dio vive includendo l’altro; il Padre include il Figlio, il Figlio il Padre, il Padre include i figli prodighi. Da questa capacità inclusiva di Dio che accoglie in sé i peccatori nasce la Chiesa che è una comunità di redenti, di figli perdonati e fatti nuovi per grazia di Dio, dunque non una comunità di perfetti, di puri, di uomini migliori, ma di uomini accolti da Dio che a loro volta si accolgono. Sentiamo di appartenere a una chiesa della misericordia, resa bella da Cristo. Mi chiedi poi una parola per chi sente la Chiesa distante. Immagino vi siano situazioni molto diverse. In questo momento penso a una categoria che ho incontrato spesso in questi anni che è quella dei “cristiani delusi”. Dietro alle loro difficoltà rispetto alla Chiesa si nasconde talvolta il desiderio di incontrare una Chiesa idealmente perfetta, ma questa non sarebbe più la Chiesa di uomini e donne concreti che Dio raccoglie non perché sono dei campioni di virtù ma dei peccatori che Lui vuole salvare e rinnovare. Spero che questi fratelli possano incontrare una comunità cristiana che sia un’immagine bella della Chiesa proprio perché si presenta come un’umanità redenta, accolta da Dio e accogliente.
Don Marco, ha qualche desiderio
per lei?
Anzitutto vorrei rimanere
cristiano proprio per il fatto di essere diventato vescovo. E un cristiano vive
di fede, attaccato alla Parola di Dio, ascoltando il cuore per cogliere le
ispirazioni dello Spirito, con l’Eucaristia quotidiana al centro delle giornate,
inserito nella comunità. Poi vorrei custodire una vita semplice, anzitutto
perché la semplicità lascia liberi e anche perché il cuore semplice sa
coniugare la profondità spirituale con le cose concrete della vita. E poi mi
piacerebbe continuare a vivere le amicizie: gli amici sono la vera ricchezza
della vita, soprattutto gli amici con cui condividiamo la fede. Non a caso
l’amicizia è stata la prima via missionaria che la chiesa ha percorso per
parlare al mondo del Vangelo e creare una simpatia con i popoli e le loro
culture.