Dio parla agli indios nella selva
Padre Raul, sacerdote canadese che non si sente accolto dalla sua comunità, lascia tutto e si trasferisce nella selva del Paraguay, dove si immerge in una cultura diversa dalla sua, quella indigena. È questa la trama di “Dio parla nella selva. Gli Indios, la teologia e il Vaticano”, romanzo di don Giuseppe Zanardini, con prefazione di padre Josè Antonio Rubio ed edito da Gabrielli Editori. “Il libro descrive quello che dovrebbe essere la Chiesa – spiega padre Josè –. È un canto alla diversità culturale. La Chiesa deve dialogare con tutte le culture, altrimenti rimane indietro. Deve cambiare le sue metodologie di lavoro, trovare nuove forme di contatto con le culture emergenti”.
Padre Giuseppe, qual è la migliore caratteristica del protagonista del romanzo?
Padre Raul rappresenta la figura di Gesù che cerca il bene nella gente. Non arriva dagli indigeni pretendendo di fare lezioni di catechismo o di teologia dogmatica. Va per capire, condividere, dare un senso alla vita, mettere in dubbio le proprie certezze. Questa “disistrutturazione” culturale canadese è necessaria per poter accogliere il diverso, che alla fine è la presenza stessa di Dio: le differenti culture sono canali di comunicazione attraverso cui Dio ha parlato e parla ancora.
Padre Raul rischia di “affogare” perché non è capito, come potrebbe capitare a noi nella nostra quotidianità. Cosa lo tiene a galla?
È il senso della vita umana, cioè l’essenza stessa dell’uomo, che gli permette di andare avanti. Mi spiego meglio citando il mito fondamentale dei Guaranì del Paraguay. Loro credono che Ñande Ru Guasu, il padre primigenio, non abbia creato come prima cosa l’essere umano, ma il linguaggio e la comunicazione. Quindi ciò che tiene a galla Raul è ricordarsi che la nostra essenza è la parola. E c’è di più: appena dopo la parola è stato creato l’amore. Ciò che ha tenuto insieme Raul e gli indigeni è proprio sapere che noi siamo parola e amore.
Perché la scelta di un personaggio dalla cultura canadese? Forse per creare un contrasto con la cultura paraguayana?
In realtà è perché non volevo rendere protagonista una cultura europea. Volevo parlare sì di un modello occidentale, ma che fosse inserito nel continente americano, per mostrare come nello stesso luogo si possano trovare tradizioni così diverse tra loro e che comunque riescono a comunicare.
Raul ha imparato molto, ma ha dato altrettanto...
Certo. Una delle prime cose che ha dato al popolo indigeno è stato il rispetto. I membri di questa comunità si sono sentiti trattati da pari. Vedere che un uomo proveniente da un contesto molto diverso valorizza la selva, gli animali e le pratiche rituali è stata, per gli indigeni, una grande ricchezza. Raul ha realizzato la legge fondamentale della relazione tra i popoli: dare e ricevere, un processo reciproco, che crea società.
Quando torna in Canada, padre Raul dice che l’esperienza missionaria gli ha cambiato la vita. È così anche per lei, don Giuseppe?
Sì. In Paraguay il contatto con la gente mi ha arricchito. Mi ha permesso di condividere con loro tempo, viaggi ed emozioni. Tutto ciò ha generato fiducia e rispetto reciproci. Come ha detto anche padre Rubio, ci siamo sentiti amati e ben voluti.
Nel romanzo si spiega bene anche il rapporto con la natura. Raul porta avanti quel che papa Francesco ha spiegato con la Laudato Si’?
Si, è dal 2015 che il Papa sta invitando tutta la Chiesa cattolica ad aprire cuore e mente al deterioramento del pianeta. C’è la necessità di una conversione ecologica negli aspetti concreti, nelle politiche. Se il nostro mondo muore, ci si avvia verso un’ecatombe dove non c’è vita e non c’è Dio. Per mantenere in piedi la Terra c’è bisogno di una sensibilità ecologica e di interventi personali, oltre che politici.
La storia di Raul continuerà?
Questa è una domanda che le persone mi pongono spesso. Sì, la storia prosegue in un altro romanzo, che in spagnolo è stato pubblicato un paio di mesi fa e che tradotto è “Ritorno alla selva”.