Brescia, città della speranza
Nella chiesa di San Francesco si è rinnovato il tradizionale scambio dei Ceri e delle rose. Tre le direttrici indicate dal vescovo Tremolada: "Carità intellettuale, carità educativa, carità dell’etica: queste possono essere tre strade da percorrere per seminare nell’oggi la speranza nel futuro"
Sotto le volte di questa bella chiesa bresciana dedicata a san Francesco, in comunione con lui, cantore della bellezza del creato e dell’amore del Cristo crocifisso e risorto, celebriamo la solennità dell’Immacolata Concezione. Anche per lei, anzi ancor più per lei, si deve parlare di una bellezza che attrae. Lei che è la piena di Grazia e ha donato al mondo il Redentore, si presenta a noi in tutto il suo splendore. Lei che non è stata ferita dal male ci viene incontro con amorevole tenerezza, proclamando con noi la potenza dell’infinita misericordia di Dio.
A lei guardiamo con speranza, con lei camminiamo nella speranza, grazie a lei annunciamo al mondo la speranza. La felice scelta che la liturgia ha compiuto, per antica tradizione, di collocare la Solennità dell’Immacolata Concezione nell’orizzonte del Natale del Signore, conferma questa verità: la madre di Dio ha vissuto come noi l’attesa di un compimento. Anche lei che ha portato in grembo il Salvatore ha dovuto attendere che il tempo si compisse per poterne vedere il volto. Aveva udito l’annuncio e già ne riconosceva i segni, ma occorreva aspettare per constatarne l’attuazione. Questa attesa lieta e grata era già speranza in atto.
Della speranza che l’Immacolata Concezione testimonia vorrei un poco parlare, in questa circostanza che è divenuta cara all’intera città di Brescia e che vede riunite anche le autorità civili e militari, cui va il nostro doveroso e cordiale ossequio. Vorrei parlare della speranza perché già solo il risuonare di questa parola allarga il cuore ed anche perché ho la dolorosa percezione che essa sia piuttosto a rischio nel nostro tempo. Sintomi evidenti di questa crescente latitanza della speranza nella scenario del nostro vivere quotidiano sono i pochi sorrisi, la forte conflittualità, la corsa all’appagamento immediato, l’asprezza del linguaggio e delle relazioni, il calcolo, le cautele, le chiusure. E non da ultimo l’impressionante calo delle nascite. Su uno di questi sintomi in particolare vorrei però soffermarmi in questa riflessione condivisa, e cioè sul diffondersi della paura.
Sta crescendo nella nostra società il livello dell’ansia, di una incertezza diffusa che – se non vedo male – dipende in buona parte dalla maggiore fatica a dominare la paura ma anche dall’intenzionale e grave tendenza a fomentarla. La paura è l’emozione primaria di difesa provocata da una situazione di pericolo. Conosciamo molto bene le molteplici forme che essa assume: paura delle disgrazie, paura delle malattie, paura della guerra, paura del terrorismo, paura di perdere i propri cari, paura di rimanere soli, paura dello straniero, paura di perdere il proprio mondo, paura di sbagliare, di non essere capiti e apprezzati, paura di non farcela, di non riuscire a realizzare i propri sogni e desideri. E poiché tutto questo potrebbe sempre succedere nel tempo che abbiamo davanti, ecco la paura che le riunisce tutte insieme: la paura del futuro.
Nelle paure c’è sempre la sensazione che qualcosa minacci la nostra vita, che un pericolo incombente ponga a rischio la serenità dell’esistenza. L’effetto della paura è normalmente lo spavento, che si trasforma in panico e successivamente in una sorta di ansia pervasiva. La reazione ad una simile percezione di pericolo è la ricerca istintiva e immediata della propria difesa, compiuta in tutti i modi e a qualsiasi costo. Ne segue una sorta di accecamento, che provoca una totale perdita del proprio controllo e che induce a quattro comportamenti ugualmente riprovevoli: la fuga, la paralisi, la chiusura, l’attacco violento. La paura toglie all’uomo dignità e nobiltà, decreta la sconfitta dell’intelligenza e della libera volontà da parte di un’emozione incontrollata volta all’autopreservazione.
È stato detto, non senza un certo cinismo, che ci sono due modi per far muovere gli uomini: l'interesse e la paura. Sarebbero queste anche le leve attraverso le quali dominare le masse. Occorre purtroppo riconoscere che in questa cruda affermazione esiste un fondo di verità. Per quanto all’apparenza diversi, l’interesse e la paura hanno un elemento in comune e cioè la totale ed esclusiva attenzione a se stessi, alla propria sussistenza e al proprio benessere. L’incontrollato amore di sé, non di rado accompagnato da un narcisismo sordo, espone inevitabilmente il soggetto umano alle attrattive dell’interesse e alle repulsioni della paura. Gli antichi chiamavano tutto questo: philautia, amore morboso di se stessi, voracità dell’io proteso alla propria esclusiva gratificazione. Il segnale della sua presenza si riscontra anche oggi quando ogni proposta viene valutata esclusivamente sulla base delle proprie personali attese di riuscita e di appagamento. Si interpreta così l’esigenza spesso ribadita di “essere se stessi”, di dare piena realizzazione alla propria persona. La “cultura dell’autenticità” tende oggi ad essere intesa non come la cultura della verità riconosciuta dalla coscienza ma come la cultura della propria riuscita e del proprio benessere: uno stare bene che non coincide necessariamente con il vivere bene e con il fare del bene.
Qualcuno ha parlato di eclisse della dimensione etica dell’agire. In effetti, il rischio di confondere il bene con il benessere appare reale. Una cosa tuttavia è utile ricordare: l’etica, cioè il giusto modo di vivere, non vale per se stessa e non va rivendicata semplicemente come regola adeguata di comportamento. L’etica è infatti a totale servizio della vita, della sua bellezza e della sua nobiltà. L’etica è la voce della verità che mantiene vivo il senso di umanità, senza il quale l’esistenza precipita nel caos. La ricerca della gratificazione individuale a qualsiasi costo e la difesa del proprio diritto soggettivo a prescindere dal diritto di tutti, cioè dal bene comune, mette a rischio la stessa forma umana del vivere, rende l’esistenza incerta, pericolosa e triste, alla fine disumana. In particolare, la mantiene costantemente esposta all’attacco devastante della paura.
Con profondo rammarico dobbiamo constatare che oggi è diventata una strategia fomentare la paura. Molte, troppe, parole pronunciate anche a livelli di alta responsabilità sociale mirano a sfruttare le paure della gente, prospettando pericoli incombenti, descrivendo la realtà in modo da suscitare ansia e incertezza per poi presentarsi come coloro che sono in grado di affrontare adeguatamente la situazione. Ritengo che questo sia un comportamento gravemente scorretto e altamente pericoloso. Mai la vita civile ha ricevuto e riceverà giovamento dalla reazione istintiva che la paura ingenera. Chiunque cavalca la paura e fa di questo un modus operandi avvelena il clima sociale e non rende un giusto servizio alla verità. In questo modo contribuisce a indebolire la speranza.
La paura non va fomentata ma piuttosto contrastata. E che cosa la contrasterà se non il coraggio, cioè quella meravigliosa forza d’animo che resiste all’urto di ciò che a volte minaccia la vita? Il coraggio suscita ammirazione perché lascia intravedere l’alta misura che è propria della vera umanità, la vetta cui può tendere un cuore libero e puro. Il coraggio fiorisce là dove si prospetta qualcosa di grande in cui credere, un bene al quale votarsi, una nobile causa per cui sacrificarsi. Allora anche la stessa morte non fa più paura e la vita si manifesta in tutto il suo eroico splendore. Mi ha molto colpito una frase di Paolo Borsellino, il coraggioso magistrato vilmente assassinato il 19 luglio 1992 in un agguato mafioso. Egli ha lasciato scritto: “È bello morire per ciò in cui si crede. Chi ha paura muore ogni giorno; chi non ha paura muore una volta sola”. È vero: la paura può tenere in ostaggio un uomo per tutta la vita e farne uno schiavo. Chi sa di poter offrire la sua stessa vita per qualcosa di grande, non teme di perderla. Credo sia da ricercare in questa direzione il vero senso della speranza.
Ci aiuta anche meditare sulla differenza che esiste tra la paura e il timore. È stato giustamente osservato che mentre la paura spinge ad evitare, il timore spinge a indagare. La paura dice l’ansia di soccombere, il timore dice la trepidazione di scoprire. Il timore mette in campo il senso di ammirazione e insieme di rispetto di fronte ad una realtà di cui intuiamo la misura eccedente. Alla vigilia di una grande decisione è naturale avere timore; sarebbe invece strano sentirsi morire dalla paura. Così inteso, il timore, a differenza della paura, apre alla speranza, anzi, in un certo senso la suscita. Il timore di Dio – di cui spesso parlano le Sacre Scritture – mette in conto la percezione profonda della sua maestà e grandezza e insieme della sua provvidenza e misericordia. Spinge a consegnarsi a lui, al suo abbraccio amorevole, alla sua mano sicura, al suo mistero insondabile di bene. Questa fiducia è garanzia per il futuro.
Il senso di Dio, con il suo mistero di grazia, abbraccia il tempo nella sua dimensione totale. La speranza, infatti, è la virtù che chiama in causa il futuro, ma attinge all’esperienza del presente e, tramite la memoria, affonda le sue radici nel passato. Più precisamente, essa si alimenta al dolce ricordo dell’esperienza d’amore che il cuore ha vissuto nel passato e continua a vivere nel presente: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo? – si domanda san Paolo scrivendo ai cristiani di Roma – forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? […]. In tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati” (Rm 8,35-39. Chi si sente amato può sperare nel futuro, perché sa che quel che vede oggi potrà vederlo anche domani. Se dunque l’umanità è capace di amare, il futuro non sarà mai buio. Ma soprattutto, se l’umanità può contare sull’amore di Dio avrà sempre una ragione per sperare. Sarà lui il sostegno delle nostre fragilità e il garante delle nostre potenzialità.
Come si risponde dunque ai sintomi attuali di carenza di speranza? Come si raccoglie la sfida dell’ansia crescente e della paura che tende a diffondersi? Credo immettendo nel presente una dose di rinnovata fiducia, arricchendolo di segnali d’amore. Ognuno è chiamato personalmente in causa. Piccole luce diffuse, che attingono al mistero di Dio, sono in grado di illuminare un grande ambiente e ci ricordano che il buio non ha necessariamente l’ultima parola. Si semina speranza testimoniando coraggio e tenerezza, decisione e mitezza, sapienza e umiltà. Lo si fa attraverso gli sguardi, le parole, i gesti che ci si scambia nell’incontro dei volti. Il quotidiano è il terreno privilegiato in cui si affronta la grande battaglia della speranza.
Mi sembra vi siano tuttavia tre direzioni particolari in cui muoversi per dare alla speranza un fondamento reale, permettendo ai segni d’amore di prendere corpo in modo non teorico. Mi permetto soltanto di accennarli. La prima direttrice è quella del pensiero e della cultura. Promuovere la riflessione condivisa, il dialogo costruttivo, il confronto sincero, la ricerca comune; valorizzare le diverse forme del conoscere e del comunicare; fare per esempio della scienza, dell’arte e della spiritualità la via comune del sapere è un modo per infondere speranza. San Paolo VI chiamava tutto questo “carità intellettuale”.
La seconda direttrice è quella delle relazione interpersonale con le sue diverse forme: rispetto, accoglienza, inclusione, amicizia. Porre al centro di tutto la persona e promuovere la solidarietà nei rapporti: è quanto sancito all’articolo secondo della nostra Costituzione. Ma io vorrei sottolineare soprattutto l’educazione e ricordare che la speranza nel futuro domanda all’attuale generazione degli adulti di farsi carico in piena consapevolezza di questa essenziale responsabilità: la potremo chiamare “carità educativa”.
Infine, la terza linea in cui muoverci per contribuire oggi a incrementare la speranza è quella del recupero della centralità della coscienza, cui è connessa la dimensione etica del vivere. La coscienza retta genera la parola vera e la condotta onesta. Obbedire alla propria coscienza significa vincere la tentazione della ricerca unilaterale e ultimamente violenta del proprio tornaconto, sull’onda di una sorta di narcisismo generalizzato, che ci consegna ad un’esistenza perennemente infantile. La coscienza ci ricorda che occorre sempre chiedersi non che cosa è opportuno fare per stare bene fare ma che cosa è giusto fare per vivere bene: in altri termini, la coscienza ci consente di vivere “la carità dell’etica”.
Carità intellettuale, carità educativa, carità dell’etica: queste possono essere tre strade da percorrere per seminare nell’oggi la speranza nel futuro. Vorrei concludere dando la parola a una grande anima che appartiene ad una cultura diversi dalla nostra. Il padre dell’India moderna, maestro e testimone di una straordinaria spiritualità così ricca di umanità, il mahatma Ghandi, in questo modo si rivolgeva a quanti lo ascoltavano:
“Prendi un sorriso, regalalo a chi non l'ha mai avuto.
Prendi un raggio di sole, fallo volare là dove regna la notte.
Scopri una sorgente, fa' bagnare chi vive nel fango.
Prendi una lacrima, passala sul volto di chi non ha mai pianto.
Prendi il coraggio, mettilo nell'animo di chi non sa lottare.
Scopri la vita, raccontala a chi non sa capirla.
Prendi la speranza e vivi nella sua luce.
Prendi la bontà e donala a chi non sa donare.
Scopri l'amore e fallo conoscere al mondo”.
Forse scambiarsi ceri e rose vuol dire anche questo: riconoscere che la società ha bisogno della speranza e che la speranza ha bisogno della bellezza della carità. Santa Maria della speranza, tu che risplendi della gloria di Dio e sei irradiazione del suo amore, prega per noi.