Beata suor Lucia: era impastata di umiltà
Durante il rito di beatificazione di suor Lucia Ripamonti, il card. Marcello Semeraro, nell'omelia, ha sottolineato, tra le tante virtù dell'Ancella della Carità, l'umiltà. Leggi l'omelia del card. Semeraro, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi
«Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli». Il santo Paolo VI (come non ricordarlo in questa sua Brescia e in questo rito, che ci aiuta a contemplare il fulgore della santità di Cristo, che si riflette nei suoi santi e beati) [Paolo VI] diceva che questa frase ci fa entrare nel segreto più profondo della vita di Gesù (cf. Udienza del 16 giugno 1976).
Qual è questo segreto? La consapevolezza di essere «Figlio»! È stato contato che nel vangelo secondo Matteo questa è la trentaduesima volta che Gesù pronuncia la parola «Padre»; nelle prime righe del brano che è stato appena proclamato, poi, essa è tornata per cinque volte. Poco prima, ai suoi discepoli aveva parlato del rifiuto nei suoi confronti, ma questo non gli impedisce di percepire la vicinanza del Padre; vuole, anzi, che pure noi ne scopriamo il volto, ne sentiamo la vicinanza perché il «Signore del cielo e della terra» non è un Dio lontano, ma vicino, amante degli uomini.
Hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli: ciò che qui è importante rilevare non è tanto che Dio nasconda ai sapienti e ai dotti, quanto che Egli, intenerito dalla loro piccolezza, si chini sui piccoli e proprio a loro riveli i suoi segreti. D’altra parte, il primo «piccolo» è proprio Lui, Gesù. «Da ricco che era, si è fatto povero per voi», scriverà san Paolo (2Cor 8,9) e l’inno della lettera ai Filippesi ripete che Cristo, «pur essendo nella condizione di Dio… svuotò se stesso… umiliò se stesso» (2,6-8). È per questo che può dirci: imparate da me, che sono mite e umile di cuore. Imparate da me – spiegava sant’Agostino – «non a fabbricare il mondo, non a creare tutte le cose visibili e invisibili, non a compiere miracoli nel mondo e risuscitare i morti, ma che io sono mite ed umile di cuore. Vuoi essere alto? Comincia dal più basso. Se pensi di costruire l’edificio alto della santità, prepara prima il fondamento dell’umiltà» (Serm. 69, 1, 2: PL 38, 441).
Tutta la tradizione spirituale, in Oriente e in Occidente, è concorde su questo: «L’umiltà è la maestra di tutte le virtù – scriveva Giovanni Cassiano –, è il fondamento solidissimo dell’edificio celeste, è il dono più proprio e splendente del Salvatore. Difatti, chi segue il mite Signore mite non per la finezza dei prodigi, ma per la virtù della pazienza e dell’umiltà, realizzerà senza rischio di tracotanza tutti i miracoli che Cristo ha operato» (Conferenze XV, 7, 2). Della nostra Beata qualcuno ha detto che era impastata di umiltà. Una Superiora Generale delle Ancelle della Carità non ha esitato ad affermare: per me questo presenta
il massimo della santità. Il suo posto, il più desiderato: l’ultimo. Una testimone, nel processo canonico per la beatificazione ha riferito d’avere un giorno notato che Sr. Lucia si spostava in continuazione per cederle la destra e, camminando, rimaneva rispettosamente indietro di un passo. Sorpresa e stupita per questo comportamento e supponendo che avesse qualche problema nel tenere il passo le domandò se dovesse un po’ rallentarlo. Sr. Lucia, però, con un bel sorriso e a voce sommessa le rispose: No, no, va bene così, sto al mio posto.
I padri del deserto dicevano che l’umiltà è una grazia che si riceve nell’anima. «È il nome stesso di Dio e un suo dono – spiegava san Giovanni Climaco. Dice infatti: imparate da me, non da un angelo, né da un uomo, né da un libro, ma da me, cioè dalla mia inabitazione, dalla mia illuminazione e dalla mia energia presenti dentro di voi, poiché sono mite ed umile di cuore, di pensiero e di spirito, e troverete ristoro dalle lotte e sollievo dai pensieri per le vostre anime» (La scala XXV,3). L’intera tradizione spirituale della Chiesa afferma che l’umiltà è il coronamento di tutte le virtù, il coronamento dell’intero edificio spirituale. La stessa beata ripeteva che «la cosa migliore per un’anima è fare ciò che Dio vuole da lei, infatti il suo edificio spirituale è sostenuto dal profondo e solido fondamento dell’umiltà» (Relatio et vota, p. 16).
Suor Lucia non lo diceva soltanto, ma lo metteva in pratica e su questo punto, come peraltro sull’esercizio eroico delle virtù, la voce è unanime: era contenta di essere «coadiutrice», perché così poteva vivere nel nascondimento. Ed è così che, pur offrendo alla comunità un servizio davvero efficace, la nostra beata visse nel silenzio e nella semplicità evangelica trovando in tutto, anche nei rimproveri e nelle correzioni, un mezzo per umiliarsi e progredire nella santità.
Prendete su di voi il mio giogo: il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero. La beata Lucia Ripamonti questo giogo lo ha preso su di sé: accogliendo generosamente la chiamata del Signore alla vita consacrata, dove scelse per sé il servire e il restare all’ultimo posto; donandosi a Dio al punto che di lei è stato detto che «fu venduta alla Carità»; abbandonandosi alla sua volontà e questo soprattutto nei giorni dolorosi della malattia; praticando l’obbedienza con fedeltà e serenità; mettendosi a disposizione del prossimo sino a dimenticarsi di sé e questo perché «se vogliamo davvero rendere leggiero il giogo di Cristo, non useremo certo il mezzo di portarlo male o di scuoterlo dalle nostre spalle. Se lo desideriamo, così come Egli lo ha definito, soave e lieve, e cioè fonte di energia, fiducia, vita, dobbiamo portarlo con lealtà, coerenza, comprensione, vale a dire con tutto il cuore».
Come quelle iniziali, anche queste parole conclusive sono di san Paolo VI (cf. Omelia,Veglia pasquale, 17 aprile 1965). Ho voluto ancora ricordarlo perché i primissimi anni della sua infanzia egli li trascorse nel «Giardino d’Infanzia di S. Giuseppe», fondato nel 1882 dal beato Giuseppe Tovini e tenuto proprio dalle Ancelle della Carità, la famiglia religiosa della nuova beata. L’ho fatto, da ultimo, come personale memoria e gratitudine verso le Ancelle della Carità che nel 1952 giunsero nella chiesa di Albano, dove sono stato vescovo, su indicazione di mons. Montini, all’epoca Pro-Segretario di Stato di Pio XII. Andarono a Pavona, allora piccolo borgo, per aiutare, con le opere di carità e con l’istruzione, la gente povera che vi abitava.
Dobbiamo portare il giogo di Cristo con tutto il cuore, diceva Paolo VI ed è proprio così che la beata Lucia prese su di sé il giogo del Signore, memore che non c’è alcuno che possa giungere alla visione di Dio senza essere passato dalla fatica della buona opera (cf. Gregorio magno, In primum librum regum, V, 178: PL 79, 401).