Con gli occhi dell’innamorato
Tra i suoi lavori “L’albero degli zoccoli” (1978, premiato con la Palma d’oro a Cannes), “La leggenda del santo bevitore” (Leone d’oro a Venezia nel 1988) o “Centochiodi” nel 2007, per poi passare ai documentari come ad inizio carriera. Riproponiamo una nostra intervista realizzata nel 2011
Ermanno Olmi regista, sceneggiatore, direttore della fotografia, montatore, produttore cinematografico e scenografo italiano, da tutti conosciuto come il maestro.
Ha ricevuto al Vittoriale un premio che celebra la forza della bellezza e il genio dell’estetica e dell’arte. Ci si ritrova?
Non è frivolezza o falsa umiltà, ma mi pare parlino di altri. Non si ha mai la consapevolezza di ciò che si fa. Cito Borges; quando parla della creatività dice: sempre il poeta non è mai consapevole di ciò che ha scritto; se fosse consapevole perderebbe quello stato di innocenza al punto da divenire uno sprovveduto. Come quando si è innamorati. Se non si perde la testa non si può sfiorare la poesia, altrimenti è razionalità; riguarda l’intelligenza e non l’intuizione di ciò che c’è nel mistero che ci circonda. Prendiamo un albero: l’uomo lo pota e gli dà una forma, ma l’albero è un mistero straordinario, quel mistero che affascina e attrae, come gli occhi di una fanciulla quando ti accorgi che le pulsazioni cambiano ritmo. Non sai perché, però è quel volto, è quello sguardo.
Partendo da “Centochiodi”: c’è una sorta di condanna sull’essere sagomati sul costo delle cose e non sul valore.
Sì, ma attenzione. Ho avuto anche una polemica con Diliberto. Diceva che Olmi, come il nazismo, condanna i libri. Non ha capito niente. Nelle immagini ci sono dei chiodi conficcati nel libro aperto e non chiuso. Non voglio eliminare il libro e non farlo aprire, ma ho inchiodato le parole perché noi leggiamo un libro, condividiamo il contenuto, ne prendiamo possesso e a volte li ripetiamo con le nostre parole. Il problema è che non mettiamo in pratica ciò che abbiamo letto. Ci accontentiamo di sapere, ma il sapere comporta il dovere di fare. Allora, parole, se non avete la forza di farmi agire, io vi inchiodo. Cito l’unica vera rivoluzione della storia dell’umanità: la rivoluzione cristiana. Quando leggiamo alcuni passi del Vangelo, certo sono parole scritte, ma sono parole che ti scuotono e non ti danno pace. Bastano poche parole del discorso della montagna o di qualche parabola perché risuonino continuamente dentro di noi, tanto che dobbiamo far fatica per farle tacere. Se il cristianesimo è durato 2000 anni è perché queste parole a qualcuno hanno fatto l’effetto di agire. Ditemi quali altre rivoluzioni o oggetti ci mettono nella condizione di agire necessariamente. Tutto è amministrabile. Quando ti innamori no, diventi un bambino e nulla può supplire a quello sguardo.
È ancora possibile parlare di Dio agli uomini di oggi con il cinema?
Basta cambiargli nome. Quando parli di Dio usando il termine Dio o il sommo artefice, creatore o altro, immediatamente trasferisci la questione dall’immanente al trascendente. Se c’è una cosa che Dio ha fatto, penso anche con un certo sforzo, è trasformarsi nell’immanente. Allora perché cercarlo oltre le nubi, quando è qui davanti a noi. Se invece di chiamarlo Dio, lo chiami albero, Paola... non è questo Dio? Quando nei testi diciamo che Dio ci ha dato la vita è giusto ma Dio ha trasferito se stesso, in quanto è vita, in tutto ciò che è davanti al nostro sguardo. Allora, se parliamo delle cose in cui Dio si è manifestato, questo è parlare di Dio. Cristo ha capito questa cosa quando dice sono figlio del Padre; tutti siamo figli di questo Padre. Il suo insegnamento è chiaro. Se parli delle cose parli di Dio.
Ne “Il mestiere delle armi” Giovanni non si preoccupa della sua fine trascendente, ma del ricordo molto
Giovanni dice “Vogliatemi bene quando sarò morto”. Quando tu vuoi bene, a qualcuno che non c’è più, questo bene rispetto a quando è vivo, cambia? Certo e ti suggerisce in termini quasi fisici l’idea della trascendenza: al di là della tua presenza, io ti amo.