Tenete ciò che è buono
Di ogni esperienza che facciamo ci farebbe bene provare a mettere in pratica questo suggerimento di Paolo ai Tessalonicesi. Dunque, anche di ritorno dal viaggio in Svezia che i sacerdoti del “Giovane clero” hanno compiuto con il vescovo Pierantonio dal 7 al 10 maggio, provo a darne una lettura sintetica, tenendo presente l’invito paolino. Abbiamo avuto due incontri direi principali: il primo con i rappresentanti della Chiesa luterana di Svezia, il secondo con la Missione cattolica che vive a Stoccolma.
Dell’incontro presso l’abitazione della Rev. Karin Johannesson, vescovo di Uppsala, mi pare che il “buono da tenere”, si sia espresso nella calorosissima accoglienza, attorno a tavole elegantemente apparecchiate per condividere dolcezze svedesi, ma anche in quella risposta della nostra ospite, che a una domanda su cosa pensava si potesse fare per rivitalizzare un annuncio evangelico che oggi sembra un po’ in difficoltà, ci ha detto che forse dovremmo semplicemente tornare, noi e loro - abbiamo infatti scoperto che le difficoltà nella pratica della trasmissione della fede ci distinguono assai meno dei principi dottrinali - ad annunciare Cristo, tornare a parlare di Dio, semplicemente, gioiosamente, seriamente. Del secondo incontro, quello con la Missione cattolica a Stoccolma - uno sparuta ma vivace comunità che sa di essere minoranza ma sa anche di essere, appunto, comunità nel nome di Cristo e sa che il momento in cui può sperimentarlo è la celebrazione eucaristica - il “buono da tenere” si è manifestato in una italianissima calorosa accoglienza, ma anche in una testimonianza di gratitudine verso il sacerdote che la guida, persino in una semi-scherzosa richiesta di non essere lasciati soli, di continuare ad avere la possibilità di essere comunità piccola ma che può essere seme fecondo di speranza cristiana. Differenze? Forse, ci siamo detti, c’è da rilevarne una proprio nel termine “Chiesa”, comunità di fratelli in Cristo. La città è bella, grande, ma fin troppo ordinata e perfetta e lascia trasparire un senso di solitudine che emerge anche dalle deserte e silenziose strade di sobborghi straripanti di ampi spazi verdi così come dai racconti velati di amarezza della nostra guida. Non una solitudine triste, ma una solitudine che è specchio di quell’esistenza cristiana propria di una Chiesa che vuol prescindere sia dall’organizzazione ecclesiale ma anche più fondamentalmente da un’esperienza di incontro con il Risorto che si compia comunitariamente.
Credo non serva continuare a sottolineare le distanze che ci separano e che tutti ben conosciamo, ma che serva piuttosto, anche in un’esperienza come questa, tornare a casa ringraziando, per incontri fruttuosi, per accoglienze fraterne, per la condivisione che anche all’interno del nostro gruppo di preti appare sempre nuova e capace di riservare belle sorprese, ringraziando infine di poter tornare alla propria vita quotidiana nella consapevolezza che la comunione, quella che celebriamo e quella che viviamo, rimane per noi un dono tutt’altro che secondario, anzi, possiamo dirlo, costitutivo del nostro “modo” di essere Chiesa: comunità che si stringe attorno al suo Signore, che lo ringrazia, che se ne nutre, che lo testimonia.