Serafino Corti, guida e pastore
A cinque anni dalla morte, esce un libro curato da Urbano Gerola, Salvatore Del Vecchio, Sandro Albini e don Amerigo Barbieri. Giovedì 7 marzo alle 17.15 la presentazione dalle Paoline e alle 18.30 S.Messa nella chiesa della Carità
Ricordi, memorie, testimonianze, parole e pensieri non bastano mai quando si tratta di raccontare la vita di un prete che camminando tra la gente armato semplicemente con la pazienza del certosino e il coraggio del leone ha spiegato ai ricchi che solo condividendo vi è la certezza del bene, ai poveri che la loro dimensione è certo la più adatta per raggiungere il Paradiso e ai potenti che devono mettersi all’ultimo posto per trovare misericordia. Questo prete, morto cinque anni fa esibendo mani generose, cuore limpidissimo e sorrisi così dolci da cambiare il corso del giorno, si chiamava Serafino Corti, nato a Villa Carcina nel 1934, consacrato presbitero nel 1957, mandato a fare il vicerettore nel seminario diocesano, laureato in scienze naturali all’Università di Pavia, nominato assistente delle Acli quando questo ruolo significava spronare le coscienze dei lavoratori per farli sentire parte gradita e attiva della Chiesa, chiamato a dirigere l’Ufficio di pastorale sociale e del lavoro, innalzato alla dignità di parroco prima nella parrocchia di San Gaudenzio a Mompiano poi in quella della Cattedrale di Brescia, dove rimarrà fino 2006, quando il Vescovo lo vuole a disposizione per incarichi particolari. A cinque anni dalla morte, un libro – “Mons. Serafino Corti, Guida e Pastore”, editrice Gam -, curato da Urbano Gerola, Salvatore Del Vecchio, Sandro Albini e don Amerigo Barbieri raccoglie testimonianze, mette in fila pensieri, riallaccia discorsi interrotti, rimette in circolo scritti, omelie, relazioni e lezioni di un prete “stimato, rispettato, cercato, temuto, amato”.
Le testimonianze. Seguono tante, accorate, puntuali testimonianze: quella del vescovo Foresti ammette che “a don Serafino non sono stati riconosciuti ruoli che avrebbe meritato”; un’altra, quella di don Gabriele Filippini lo dipinge “più preoccupato del bene della persona a lunga distanza che non del piccolo beneficio immediato; quella di Sandro Albini lo raffigura “fedele alla Chiesa, ma anche alla propria coscienza”; quella di don Alfredo Scaratti lo chiama “cultore e testimone della fraternità”; quella di don Osvaldo Mingotti gli riconosce il titolo di “prete dalla parola franca, che non ha mai tradito la verità”. Lo rivedo lento e pensoso camminare verso la Cattedrale disposto a ragionare sulla crisi e sulle preoccupazioni allora dominanti. “Dovremmo smetterla – diceva don Serafino - di chiedere alla gente di accogliere, sfamare, dissetare; dovremmo invece incominciare a gridare che non è più tollerabile che qualcuno sia sempre più ricco e altri sempre più poveri; dovremmo pretendere da chi ci governa una regola sola: è proibito licenziare, chiudere, sbattere la gente in mezzo alla strada. E noi, Chiesa comunità, dovremmo ricominciare ogni giorno dal Vangelo, dal Padre Nostro messo in pratica, dalla condivisione e dal confronto”. A cinque anni dalla sua morte, grazie a un libro che già ne sollecita altri, don Serafino vive e dice che “un futuro senza disuguaglianze, cioè un futuro felice, è possibile”.