Non giustificare il comportamento maltrattante
Maltrattare? E’ un fatto culturale: va assolto! Al di là di ogni considerazione tecnica, la Casa delle donne Centro Antiviolenza CaD Brescia OdV propone alcune osservazioni in merito alle motivazioni addotte dal PM del tribunale di Brescia per la richiesta di assoluzione dell’imputato di origine bengalese accusato di maltrattamenti nei confronti della moglie
Come da più parti emerso, ribadiamo il concetto espresso nella “Convenzione sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne New York, 18 dicembre 1979” sottoscritto dai Paesi membri, nella quale al terzo orientamento generale si stabilisce che “La Convenzione mira ad ampliare la nostra comprensione del concetto di diritti umani, poiché riconosce formalmente l'influenza della cultura e della tradizione nel limitare il godimento dei diritti fondamentali da parte delle donne. Queste forze prendono forma in stereotipi, costumi e norme che danno origine a una moltitudine di vincoli giuridici, politici ed economici al progresso delle donne. Rilevando questa interrelazione, il preambolo della Convenzione sottolinea "che è necessario un cambiamento del ruolo tradizionale degli uomini, nonché del ruolo delle donne nella società e nella famiglia, per raggiungere la piena uguaglianza tra uomini e donne". Gli Stati parti sono quindi obbligati ad adoperarsi per la modifica dei modelli sociali e culturali di condotta individuale al fine di eliminare "i pregiudizi e le pratiche consuetudinarie e tutte le altre pratiche basate sull'idea di inferiorità o di superiorità di uno dei sessi o sui ruoli stereotipati degli uomini e delle donne” (articolo 5).” Di conseguenza, ogni atto prevaricatore e di violenza nei confronti delle donne deve essere condannato a prescindere dalla cultura di provenienza del maltrattante.
Le condotte in oggetto sono state attuate in Italia e come tali costituiscono reato. Quindi, in tema di giustificazione, “ lo straniero imputato di un delitto contro la persona o contro la famiglia (572, 609,bis, 570 c.p.) non può invocare la scriminante dell’esercizio di un diritto correlata a facoltà assortamente riconosciute dall’ordinamento dello Stato di provenienza, qualora tale diritto debba ritenersi oggettivamente incompatibile con le regole dell’ordinamento italiano, in cui l’agente abbia scelto di vivere, attesa l’esigenza di valorizzare, in linea con l’art. 3 della Costituzione, la centralità della persona umana, quale principio in grado di armonizzare le culture individuali rispondenti a culture diverse e di consentire l’instaurazione di una società civile multietnica (Cass. Sez. 3 del 29/01/2015 sent. N. 14960).
In altre sedi giudiziarie, e per altre situazioni sovrapponibili a quella che stiamo prendendo in considerazione, le valutazioni dei magistrati e le motivazioni dei giudici, pur rifacendosi e menzionando il fattore culturale, giungono a conclusioni diametralmente opposte a quella presa in esame: il fattore culturale non incide sul dolo del reato di maltrattamenti e la richiesta di condanna è la strada da percorrere. Ci sorgono spontanee alcune domande: quanta discrezionalità è lasciata ai giudici per poter accogliere questo tipo di richieste? Quali esiti paradossali si possono verificare in situazioni simili? Dov’è la giustizia uguale per tutti/e?
Ancora una volta ci tocca mettere il dito nella piaga: ancora una volta si tende a giustificare in qualche modo il comportamento del maltrattante. Di solito perché in fondo la donna se l’è meritata, mentre lui è vittima di una cultura aberrante che lo deresponsabilizza. Si ricorre a quella mentalità misogina e patriarcale per cui vige il diritto di correggere nella donna, anche attraverso la violenza fisica, psicologica, sessuale, economica comportamenti poco consoni ai ruoli e stereotipi attivati dal contesto culturale. Ma questa si chiama vittimizzazione secondaria, anzi, istituzionale nella quale spesso si incappa nelle aule giudiziarie e che sottintende una mancata consapevolezza da parte dei rappresentanti della giustizia sul tema della violenza maschile nei confronti delle donne così ben descritta e regolamentata dalla Convenzione di Istanbul. Una faticosa presa di coscienza ostacolata da una strisciante cultura della differenza di cui è ancora intrisa la stessa società italiana.
E allora non ci resta che appellarci alla Convenzione di Istanbul e al buon senso che impone l’obbligo della formazione a tutti/e gli/le operatori/operatrici del settore, compreso tutto l’apparato giudiziario, dagli/dalle legali, ai/alle P.M. ai/alle giudici affinché siano attori/autrici per scardinare e “ Modificare i modelli sociali e culturali di condotta degli uomini e delle donne, al fine di ottenere l'eliminazione dei pregiudizi e delle pratiche consuetudinarie e di tutte le altre pratiche basate sull'idea di inferiorità o di superiorità di entrambi i sessi o sui ruoli stereotipati per uomini e donne” (art.5 Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne) al fine di ottenere l’uguaglianza sostanziale e condannare ogni forma di violenza nei confronti delle donne.
(Foto Siciliani-Gennari/SIR)