Il Bulloni a un prete con gli ultimi
Dall’esperienza come Fidei donum in Kenya all’impegno costante verso gli ultimi della società, focalizzando l’attenzione sulla tossicodipendenza. Oggi, sottolinea don Redento Tignonsini, vincitore del Premio Bulloni 2016, l’emarginazione è rappresentata, anche, dal non saper gioire di quello che ci viene dato dalla vita
“Si vogliono individuare atti, personali o collettivi, meritevoli di un pubblico riconoscimento, perché la solidarietà, all’interno della nostra società, possa trovare molteplici forme di espressione” aveva sottolineato il sindaco Emilio Del Bono in vista dell’appuntamento con il Premio Bulloni. L’edizione 2015 era stata caratterizzata dalla commozione per l’assegnazione del riconoscimento a Erica Patti, la madre dei fratellini di Ono San Pietro che dallo strazio per la perdita dei figli ha saputo trarre la forza per dare vita a un’associazione che si dedica all’aiuto dei bambini e delle donne vittime di violenza. Nei mesi scorsi, invece, le segnalazioni arrivate a Palazzo Loggia si sono concentrate su don Redento Tignonsini che riceverà il Premio venerdì alle 18 all’auditorium San Barnaba.
Quanto ha influito l’esperienza come Fidei donum in Kenya (dal 1969 al 1977) nell’apertura agli emarginati, poi concretizzata nella nascita della comunità di Bessimo?
Era una comunità sconosciuta ai più. Lì ho trovato persone che stavano morendo di sete e di fame. Dal 1968 non pioveva. Ho conosciuto lo standard minimo per la sopravvivenza, convivendo con loro per 7 anni, sperimentando la stessa vita. Con l’aiuto di alcuni giovani di Gorzone e di alcuni medici di Torino abbiamo creato 22 pozzi, trovandone 12 attivi. Acqua significa sopravvivenza, per se stessi come per i cammelli. Nel villaggio l’alimentazione si basava su latte e sangue di cammello mescolati. Quest’esperienza “agli estremi” mi ha insegnato a vivere spogliandomi del superfluo.
Veniamo alla comunità di Bessimo e alle esperienze successive. Cosa ha imparato dal contatto con gli esclusi?
Per rendersi conto dell’importanza della vita bisogna camminare con gli ultimi perché ti insegnano a vivere sapendo assaporare ciò che si ha, poco o tanto che sia. Anche i tossicodipendenti, che sapevano sopravvivere alla loro maniera, seppur segnata da un’esperienza tragica, mi hanno insegnato che basta poco per essere contenti.
Quali sono state le maggiori difficoltà riscontrate nel rapportarsi con questi ragazzi?
Sicuramente la problematicità maggiore era rappresentata da chi abbandonava il cammino iniziato. Era difficile spiegare che il non tornare sui propri passi significava buttare via la propria vita. Certo, c’erano anche le difficoltà economiche: eravamo agli inizi, senza sovvenzioni. Cercavamo di andare avanti con le nostre possibilità, intraprendendo un cammino di vita comune.
Oggi quali sono i nuovi emarginati e la Chiesa cosa può fare?
Oggi l’emarginato è chi non sa vivere accontentandosi di ciò che ha. Bisogna saper vivere affrontando gli imprevisti, aiutando gli altri a farlo in maniera positiva. Oggi c’è una mancanza di amore nei confronti degli altri e la Chiesa può fare tanto. La Chiesa per me non sono i Papi, i Vescovi… loro sono i servitori, la Chiesa sono i cristiani, i seguaci di Cristo. Oggi la società è succube di un eccessivo personalismo: dovremmo imparare a volerci bene vicendevolmente, staremmo meglio tutti, a nessuno mancherebbe niente. Il vero problema è che non sappiamo gioire di quello che ci viene dato dalla vita. Ci manca quella gioia di fondo che dovrebbe accompagnarci dalla mattina alla sera. Questo impedisce al nostro sguardo di vedere i risvolti positivi dell’esistenza, una capacità che spesso non sappiamo donare agli altri…
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