I diritti umani visti da "dentro"
Per celebrare la Giornata internazionale dei Diritti Umani, i detenuti della Casa circondariale Nerio Fischione hanno presentato un libro sul tema dei diritti umani e hanno condiviso, attraverso la danza e la musica, alcune riflessioni
Immagine di Christian Penocchio
“Possiamo parlare di diritti, noi che li abbiamo violati?”. È questa la domanda dalla quale sono partiti i detenuti della Casa Circondariale Nerio Fischione (Canton Mombello) nel presentare i frutti del laboratorio di Arteterapia facilitato e portato avanti dalla rete del volontariato. Davanti al sindaco Del Bono (“è stata una bella ed emozionante mattinata, l’augurio è di trovare il meglio di noi stessi”), agli assessori (Gianluigi Fondra e Roberta Morelli) e ai Magistrati di Sorveglianza, hanno condiviso alcune riflessioni aiutati dalla danza e dalla musica sul tema dei diritti umani. In particolare, si sono soffermati sugli articoli (1, 3, 19 e 29) della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Il percorso è stato sviluppato in collaborazione con la Garante dei detenuti, con gli insegnanti del Tartaglia Olivieri e con i volontari della rivista interna “Zona 508” (ACT onlus). In una struttura carceraria non bisogna dimenticare che “i diritti, pur condizionati, rimangono e persistono. Qui dentro – ha spiegato Francesca Gioieni, la direttrice della Casa – convivono culture diverse (50 Paesi del mondo). Non possiamo pensare che la sicurezza sociale sia garantita da mura alte e spesse e da pene lunghe: non è questo che ci garantisce. Abbiamo bisogno del territorio. Molti detenuti hanno una famiglia all’esterno e sono radicati qui. Il nostro compito è quello di ragionare sulle motivazioni, sul perché sono arrivati qui, perché poi il problema non si riproponga una volta fuori”. Ecco perché il contatto con il territorio, e con le tante associazioni che lo animano, è importante. Ogni settimana si sono confrontati sui diritti umani per abbattere la distanza che li separa dagli altri e per comprendere quanto è arricchente lavorare in gruppo. E così in un clima suggestivo denso di significato hanno ribadito una regola che vale per tutti, per chi è dentro e per chi è fuori: le scorciatoie e le cose facili si pagano. A ogni diritto corrisponde un dovere.
Al termine hanno distribuito agli altri detenuti e agli ospiti un libro in più lingue dove, in collaborazione con la scuola Tartaglia Olivieri, hanno espresso con il disegno il loro pensiero sui diritti umani: “Se quei 30 diritti sanciti dalla Carta – ha scritto nell’introduzione Luisa Ravagnani, garante delle persone private della libertà – valgono per un solo uomo, allora va trovato il modo di garantirli a tutti, se si decide che vadano difesi per le persone più vicine, allora bisognerà trovare il modo di proteggerli ovunque, per poter continuare, o iniziare, a credere che esiste una sola, unica, razza: quella umana”. Il testo può vantare anche alcuni contributi dall’estero di autorevoli esponenti impegnati nel campo dei diritti umani. C’è la firma di Florentino-Gregorio Ruiz Yamuza, magistrato in Spagna, che ricorda come “la gente soffra condizioni di vita disumane, crudeli, trattamenti degradanti per le azioni di altri, con la collaborazione di Stati e governi, a volte consapevoli, altre volte indifferenti”. E c’è il pensiero di Jim Drummond (avvocato americano nei processi che implicano la pena capitale) secondo il quale “il diritto penale è una terribile fonte di violazioni dei diritti umani nello Zimbabwe, ma anche, meno evidentemente, negli Stati Uniti e in India”. La sintesi migliore arriva da Hans Meurisse, direttore generale dell’Amministrazione penitenziaria del Belgio, e chiama in causa tutta la comunità: “I diritti umani per i detenuti non possono essere una questione di indifferenza. Le mura della prigione non escludono questo gruppo vulnerabile dalla società in generale. Tali diritti costruiscono ponti verso una vita migliore dopo la pena e collegano i detenuti al loro futuro”.