I consultori in prima linea
Quello di Mattia Rabaiotti è un punto di vista particolarmente qualificato per comprendere quelli che sono gli effetti della pandemia sulla tenuta psicologica delle persone. Direttore della Fondazione “G.B. Guzzetti” di Milano, ha costantemente sott’occhio le richieste di aiuto che arrivano a sei consultori familiari di ispirazione cristiana, accreditati con la Regione Lombardia, operanti nel territorio milanese, particolarmente colpito nella seconda fase della pandemia, e che fanno capo alla fondazione.
Che mesi sono stati, quelli della pandemia, per il mondo dei consultori?
Sono stati mesi difficili, impegnativi e anche se non è facilissimo dare una quantificazione numerica all’impatto che la pandemia e le misure restrittive che sono state messe in campo per arginarla hanno avuto sulla salute mentale delle persone, i consultori hanno potuto osservare un aumento delle richieste e una loro diversificazione. Abbiamo incontrato soprattutto donne e giovani, alle prese con crisi d’ansia, attacchi di panico, disturbi depressivi, del sonno e più in generale in difficoltà nel rapporto con le dinamiche ordinarie della quotidianità. Un altro aspetto preoccupante emerso in questi mesi riguarda le coppie. Ai consultori si sono presentate tantissime coppie scoppiate, con forme di disagio legate alla difficoltà della convivenza. Il lockdown, con la convivenza forzata, ha portato a dinamiche esplosive che a volte sono sfociate nel dramma della violenza domestica.
La pandemia è stata per tutti un’esperienza inedita. Come hanno risposto i consultori?
Anche i consultori si sono trovati nelle condizioni di mettere a punto nuove modalità di intervento. Sono venuti così alla luce la ricchezza delle risorse che queste realtà sanno mettere in campo, ma allo stesso modo anche i loro limiti nell’affrontare una situazione del tutto nuova. In poche settimane hanno dovuto riposizionarsi per quello che riguarda la cura, l’assistenza, la vicinanza con metodologie da remoto. Si è trattato di uno sforzo gigantesco che ha però garantito la continuità assistenziale alle persone già in carico e a quelle che si sono rivolte alle strutture per la prima volta.
Le tecnologie hanno aiutato?
Non sempre, quelle metodologie terapeutiche adatte al superamento dei traumi da stress, patologia comune a tanti nella pandemia perché toccati dalla malattia o dal lutto, hanno risentito dell’assenza dell’azione in presenza. Non tutte le persone in condizioni di bisogno hanno avuto facilità di accesso alle tecnologie e questo è stato un limite nella capacità di intercettare il vissuto problematico delle pesone.
Quali sono le categorie su cui concentrare le maggiori attenzioni nel post pandemia?
Al primo posto ci sono sicuramente le donne che stanno pagando il prezzo più alto della pandemia. Molte hanno dovuto ritirarsi dal lavoro, hanno dovuto farsi carico del ruolo di cura, con una generale regressione rispetto ad alcune conquiste di autonomia e indipendenza, soprattutto nel mondo del lavoro. Un’altra categoria è sicuramente quella degli adolescenti perché la pandemia ha creato grossissimi limiti rispetto al loro bisogno di confronto con i pari che è uno dei meccanismi principali della loro crescita. E poi ci sono le coppie.