Alzheimer: cosa cambia per i medici?
Nei giorni scorsi, The Lancet Neurology ha presentato le nuove linee guida per la diagnosi dei disturbi cognitivi, tra cui l'Alzheimer. Sono le prime raccomandazioni che propongono un uso combinato dei biomarcatori e sono state realizzate dagli esperti delle maggiori Società Scientifiche in Europa, coordinate dall’Università di Ginevra, l'Università di Genova - Irccs Ospedale Policlinico San Martino e dall’Irccs Centro San Giovanni di Dio Fatebenefratelli di Brescia. Consentiranno di dare un nome ai primi segni di deterioramento cognitivo, che possono essere causati dalla malattia di Alzheimer o da un'altra forma di demenza e sono state sviluppate utilizzando la procedura Delphi, coordinata proprio dall’Irccs Fatebenefratelli.
Perché sono importanti per il sistema sanitario nazionale
Perché razionalizzano e ottimizzano i percorsi diagnostici: in breve, si faranno meno esami e si andrà più a colpo sicuro nell'individuare la causa di certi sintomi. Finora, si procedeva in modo più disomogeneo, anche se alcune Regioni si sono poste il problema, hanno investito e hanno anticipato le linee guida: è il caso, per esempio, del Percorso diagnostico terapeutico assistenziale (PDTA) della Lombardia. “Una omogeneizzazione delle procedure a livello europeo è importante, perché consentirà di avere una maggior confrontabilità nelle diagnosi cliniche di diversi paesi” spiega Cristina Geroldi, geriatra dell'Irccs Fatebenefratelli.
Cosa cambia per un medico che deve fare una diagnosi
Risponde Geroldi: «Ipotizziamo che si presenti una persona affetta da afasia. Si parte, come si partiva in passato, con una raccolta anamnestica accurata, un esame obiettivo neurologico, un esame di neuroimaging strutturale (Risonanza Magnetica se possibile, oppure TAC), e dei test neuropsicologici, per capire innanzi tutto se il paziente abbia problemi vascolari e che tipo di afasia presenti. Poi però non si procederà random: in assenza di eventi vascolari che possano giustificare l’afasia, se l’ipotesi diagnostica principale sarà quella di una forma frontotemporale, procederemo a una FDG-PET, mentre per escludere in prima battuta una variante logopenica della malattia di Alzheimer valuteremo prima i biomarcatori liquorali. Solo in caso di mancata conferma dell’ipotesi diagnostica principale, si procederà, quindi, all’esecuzione di ulteriori accertamenti. Ciò permetterà di avere una diagnosi in tempi più rapidi e, sulla base degli studi che hanno condotto a queste linee guida, anche più accurata e precoce».
Quali esami si usano
Per la prima volta, le raccomandazioni - implementabili in ogni centro specializzato (CDCD) - non sono centrate sulla malattia, ma sul paziente e i suoi sintomi. A partire da 11 diverse modalità con cui si presenta un deterioramento cognitivo, in 4 passi successivi e con test differenti a seconda del profilo del singolo paziente, si potrà individuare la patologia responsabile in tempi più rapidi e con minori sprechi di risorse. Si utilizzeranno oltre ad analisi del sangue, test cognitivi, risonanza magnetica o TAC e in alcuni casi elettroencefalogramma, ma anche l’analisi di specifici marcatori nel liquido cerebrospinale, PET o SPECT di differenti tipologie, scintigrafie... Quando sarà possibile associare l’utilizzo di biomarcatori rilevabili nel sangue, l’iter potrà ridurre fino al 70% gli esami strumentali inutili.