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Brescia
di +LUCIANO MONARI 28 dic 2015 00:00

Un Natale nel segno della Misericordia

"Quel bambino inerme, avvolto in fasce, deposto in una mangiatoia, può e deve diventare per noi l’immagine viva dell’amore di Dio che si fa riconciliazione e perdono e che, offrendo a noi la sua grande misericordia, fa anche di noi dei piccoli strumenti di misericordia". L'omelia del vescovo Monari pronunciata durante la Messa della notte di Natale e le parole dell'omelia del 25 dicembre

Il vangelo di Luca che abbiamo ascoltato si articola in tre momenti: il primo è il racconto della nascita di Gesù; il secondo l’annuncio di questa nascita a un piccolo gruppo di pastori; il terzo la rivelazione del significato che questa nascita ha nei cieli (gloria a Dio) e sulla terra (pace agli uomini).
Il primo momento, dunque: la nascita di Gesù. Luca inizia il racconto scomodando addirittura Augusto, imperatore di Roma e, in quel tempo, padrone del mondo. E’ lui, Augusto, che ha ordinato il censimento di tutta la terra e Luca immagina gli abitanti dell’impero che, obbedendo al comando dell’imperatore, vanno a farsi censire: l’autorità di Augusto è immensa e indiscussa, l’obbedienza è universale e pronta. Ma all’interno di questo evento amplissimo, il racconto ritaglia un piccolo episodio, apparentemente insignificante: la nascita di un bambino a Betlemme, in una condizione di forte disagio perché nel caravanserraglio non si è trovato un posto dove la madre potesse partorire in pace.

Il più grande di fronte al più piccolo; il potere di un grande re raffrontato con la debolezza di un neonato. La madre, racconta Luca, “diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia.” Questa la scena che ci è familiare per un numero infinito di riproduzioni artistiche e per la tradizione secolare del presepe. Nella seconda scena ci spostiamo in aperta campagna dove alcuni pastori vegliano facendo la guardia al loro gregge. Anche qui vediamo qualcosa di sorprendente perché compare un angelo, quindi una creatura soprannaturale che trasmette ai pastori un messaggio. Di chi parla? dell’imperatore e della sua gloria? No; parla proprio di quel debole bambino sconosciuto che è appena nato. E di lui dice cose incredibili: una grande gioia – per tutto il popolo – un salvatore – il Cristo, cioè il Messia, re consacrato da Dio – il Signore. Insomma, secondo quest’angelo la persona più importante sulla scena non è Augusto che regna, ma quel bambino che comincia a vagire come tutti i bambini. Se Augusto può prendere decisioni che coinvolgono gli abitanti dell’impero romano, quel bambino sarà il Salvatore del mondo: sarà quindi in grado di dare valore alla vita, alla gioia, alla sofferenza di tutti gli uomini, nessuno escluso: ai cittadini romani e ai barbari che irromperanno nei territori dell’impero; agli abitanti del piccolo territorio d’Israele ma anche a quelli d’Europa e di Asia; all’Africa, continente antico, e al mondo nuovo: l’America. Anche qui il contrasto è voluto dal narratore che offre ai pastori e a noi un segno paradossale: “Troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia.” Niente di straordinario, quindi; non miracoli impressionanti o eventi terribili: un bambino, in fasce, in una mangiatoia. Per di più questo segno è dato ai pastori, cioè a gente considerata ai margini della vita sociale.

In Israele la vita sociale è costruita attorno alla legge mosaica e a una notevole serie di prescrizioni che santificano la vita di tutti i giorni. I pastori, per il lavoro che fanno, non possono osservare tutte queste prescrizioni e quindi si trovano quasi continuamente in una situazione di impurità, ai margini della società religiosa. Eppure, il messaggio dell’angelo è rivolto proprio a loro. Forse una spiegazione c’è: se Dio si fosse rivolto a una persona importante (a un re o a un sacerdote, ad esempio), quelli che non sono re o sacerdoti potevano sentirsi esclusi e pensare: questo messaggio non è per me; è per i grandi della politica o della religione. E invece no; Dio si è rivolto agli ultimi, quindi ha parlato a tutti. Se c’è salvezza per i pastori, c’è salvezza anche per i contadini, per gli artigiani, per tutti; anche per noi.

E finalmente la terza scena: il cielo (le schiere degli angeli) che si rivolge alla terra lodando Dio: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini che Dio ama.” Anche qui siamo davanti a un paradosso. La gloria è lo splendore che avvolge la presenza di Dio; è fatta di luce, di bellezza, di forza irresistibile, di santità. Nel mondo Dio è glorificato quando avviene qualcosa di così grande e così bello che siamo costretti a dire: Ecco, lì c’è il dito di Dio; Dio si è fatto vedere. Quando Gesù risusciterà l’amico Lazzaro, morto da quattro giorni, allora si potrà dire che lì c’è il dito di Dio, che Dio è glorificato. Ma qui, cosa c’è di straordinario? Ce l’ha indicato l’angelo: un bambino, avvolto in fasce, deposto in una mangiatoia; c’è qualcosa di divino in questo? Sì, c’è davvero: una cosa semplicissima, ma decisiva: c’è l’amore. L’amore vuole che l’amato viva e perché l’amato possa vivere è disposto a fare qualsiasi cosa; è disposto anche ad abbassarsi, a rinunciare alla sua grandezza, a sacrificarsi. L’amore è la cifra che accompagnerà tutta la vita di Gesù; per amore Gesù si farà vicino ai malati, ai poveri, agli indemoniati; per amore Gesù prenderà su di sé il tradimento di Giuda, la condanna del Sinedrio, l’ingiustizia di Pilato, la passione e la morte in croce. Per amore il Figlio di Dio si è fatto piccolo con noi e per noi; ha preso su di sé la piccolezza e la debolezza della condizione umana. In questo modo la condizione umana è redenta, cioè liberata dalla paura, dalla vanità, dall’inutilità; è riempita di valore, di significato, di speranza. Per questo nell’evento della nascita di Gesù Dio è glorificato. La grandezza di Dio risplende nell’immensità dell’universo, nella complessità e nella bellezza della materia, nell’evoluzione del cosmo e delle specie viventi; ma la grandezza di Dio risplende ancora di più nell’amore con cui Egli si è fatto vicino a noi e ci ha fatti suoi figli; nella generosità in cui ha ammesso delle piccole creature alla pienezza della sua vita e della sua gioia.

Come la nascita di Gesù glorifica Dio, nello stesso modo essa diventa dono agli uomini: “Pace in terra agli uomini che Dio ama.” La parafrasi corretta non è: pace a quegli uomini che Dio ama e non agli altri; ma invece: pace a tutti gli uomini perché essi sono oggetto dell’amore, della benevolenza di Dio. Insomma, la nascita di Gesù è la dichiarazione di pace di Dio al mondo, una dichiarazione senza condizioni e senza scadenze. Dio dichiara di essere in pace con gli uomini. Nel mondo ci sono numerosi comportamenti che si oppongono alla volontà di Dio: violenze e inganni, infedeltà e cattiverie, empietà e sacrilegi. Eppure, nonostante tutto questo, Dio non si presenta come nostro nemico ma piuttosto dichiara di essere in pace con noi. Il segno che questa dichiarazione è reale, non solo fatta di parole, è proprio quel bambino – il Figlio di Dio che Dio ha mandato nel mondo per offrire agli uomini il suo amore fedele e la sua misericordia senza limiti. Invece di rispondere al male col male, Dio ha deciso di rispondere alla violenza dell’uomo con il dono della riconciliazione, con il perdono, la pace. Non so se interpreto bene, ma mi sembra che dietro a questa decisione di Dio ci sia la sua consapevolezza che l’uomo è sì disonesto e ingiusto, ma che è nello stesso tempo infelice; il peccato, anziché trasmettergli quella gioia che l’uomo cerca, crea in lui un peso insopportabile di tristezza e di oppressione. Verso quest’uomo Dio ha deciso di usare l’arma della misericordia e Gesù è la traduzione della misericordia di Dio in termini umani.

Non solo: la pace che Dio ci offre in Gesù diventa nello stesso tempo dono della riconciliazione con Dio e premessa per una riconciliazione tra gli uomini. Proprio perché c’è violenza nel mondo, la ricostruzione della pace richiede necessariamente il perdono. Quando al male si risponde col male, alla violenza con la violenza, la violenza non fa che espandersi e avrà termine solo con la eliminazione dell’uomo dalla faccia della terra. Solo il perdono può sanare ciò che è stato ferito, può fare rivivere quello che è stato distrutto. Ma dove l’uomo ferito può trovare la forza di amare e di perdonare? Nel perdono che riceve da Dio, nella forza di riconciliazione che attraverso Gesù Dio ha immesso nel mondo e nella storia. Se gli avversari non ci stringono la mano in segno di amicizia, Dio però ci ha steso la sua mano e ha deciso di non ritirarla per nessun motivo dal momento che il suo Figlio è diventato uomo per sempre; allora accogliendo la mano di Dio che perdona, troveremo forse la forza di stendere una mano amica agli altri – magari anche all’avversario.
Il Natale di quest’anno si colloca entro il Giubileo della Misericordia che papa Francesco ha indetto e inaugurato l’otto dicembre scorso. Quel bambino inerme, avvolto in fasce, deposto in una mangiatoia, può e deve diventare per noi l’immagine viva dell’amore di Dio che si fa riconciliazione e perdono e che, offrendo a noi la sua grande misericordia, fa anche di noi dei piccoli strumenti di misericordia. Vorrei che ci sentissimo così, in questa notte santa: avvolti dallo sguardo paterno e materno di Dio, capiti nelle nostre tristezze e sofferenze, chiamati a vivere in pace gli uni con gli altri. Il futuro che ci sta davanti può fare paura a qualcuno; ma forse, guardando la mano stesa di Dio che non ci condanna e ci dona invece la sua pace, possiamo trovare il coraggio e la gioia di dire anche noi agli altri: pace a voi, dal momento che Dio ci ama.
+LUCIANO MONARI 28 dic 2015 00:00