Monari: "Non ci sarà una nuova relazione con la natura senza un essere umano nuovo"
"Oggi è la natura che soffre l’azione violenta dell’uomo portato a rapinare la terra per strapparle ciò che può servire ai suoi bisogni e ai suoi desideri. In questo contesto, lo sguardo amico di san Francesco assume una valenza nuova: contesta la visione utilitarista dell’uomo contemporaneo e gli propone una visione più modesta, rispettosa, responsabile". Leggi la lectio magistralis del vescovo Monari al convegno "Brescia per la cura della casa comune"
Cercherò, piuttosto, di cogliere quelli che mi sembrano i punti di forza della riflessione, quei punti dai quali è possibile godere di un panorama globale dell’intera lettera. Questo è possibile perché il contenuto è sì ricchissimo, ma non confuso; il dettato è chiaro e segue un filo logico preciso. È lo stesso papa Francesco a esporlo sinteticamente nel n. 15 e a riprenderlo puntualmente nei paragrafi ‘liberi’ che si trovano all’inizio di ogni capitolo, i §§ 17-18; 62; 101; 137; 163; 202. Non solo: nel n. 16 il Papa elenca anche i temi che ricorrono trasversalmente in tutti i capitoli e quindi permette di individuare i motivi dominanti della lettera: “Ogni capitolo, sebbene abbia una sua tematica propria e una metodologia specifica, riprende a sua volta, da una nuova prospettiva, questioni importanti affrontate nei capitoli precedenti. Questo riguarda specialmente alcuni assi portanti che attraversano tutta l’Enciclica. Per esempio: l’intima relazione tra i poveri e la fragilità del pianeta; la convinzione che tutto nel mondo è intimamente connesso; la critica al nuovo paradigma e alle forme di potere che derivano dalla tecnologia; l’invito a cercare altri modi di intendere l’economia e il progresso; il valore proprio di ogni creatura; il senso umano dell’ecologia; la necessità di dibattiti sinceri e onesti; la grave responsabilità della politica internazionale e locale; la cultura dello scarto e la proposta di un nuovo stile di vita. Questi temi non vengono mai chiusi o abbandonati, ma anzi costantemente ripresi e arricchiti.”
A partire da questi paragrafi, in modo sintetico, credo si possa dire così: ci troviamo nel bel mezzo di una crisi insieme ecologica e sociale (i due aspetti vanno considerati insieme perché sono strettamente collegati uno con l’altro); la crisi dipende dal modello di sviluppo che ha dominato sempre più ampiamente, negli ultimi secoli, la cultura dell’occidente; se vogliamo uscire dalla crisi, dobbiamo quindi cambiare il modo stesso di intendere il benessere umano e, conseguentemente, il modello di vita. Il Papa parla di una vera e propria ‘conversione’ ecologica che deve prendere forma nella coscienza dei contemporanei. Perché, poi, la riflessione non rimanga campata in aria il Papa propone delle linee concrete di azione sia a livello socio-politico, sia a livello del vissuto personale. All’interno di questa prospettiva si comprende anche lo spazio notevole che la lettera dedica alla figura di san Francesco. Il santo di Assisi sembra prefigurare, nel suo modo di rapportarsi alla natura, agli altri, ai poveri e nelle stesse scelte personali di vita, una figura di uomo alternativa rispetto a quella oggi dominante, una figura che incarna in se stessa i valori cui si deve fare riferimento.
Perché non si creino cortocircuiti, i commentatori hanno giustamente fatto notare la differenza nel modo di sentire il rapporto con la natura tra l’uomo del duecento (san Francesco) e l’uomo contemporaneo. San Francesco vive in un mondo che percepisce soprattutto la durezza della natura, la fatica che l’uomo è costretto a fare per trarre dalla terra il necessario alla sua sussistenza. Questa percezione corrisponde a quella stessa del libro della Genesi quando, dopo il primo peccato, Dio parla all’uomo: “Maledetto il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba dei campi. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane finché non tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai!” (Gn 3,17-19) A questa visione dura e aspra san Francesco accosta la sua visione del mondo come creatura di Dio e quindi come creatura buona, che l’uomo può accogliere con gratitudine come un dono della benevolenza di un Creatore e Padre. Fratello sole e sorella luna, frate foco e sorella morte… tutto ha nel cuore di Francesco un’eco positiva, tutto è fonte di riconoscenza, di sicurezza, di amore.
La percezione attuale della natura è mutata assai rispetto a quella del secolo XIII: oggi è la natura che soffre l’azione violenta dell’uomo portato a rapinare la terra per strapparle ciò che può servire ai suoi bisogni e ai suoi desideri. In questo contesto, lo sguardo amico di san Francesco assume una valenza nuova: contesta la visione utilitarista dell’uomo contemporaneo e gli propone una visione più modesta, rispettosa, responsabile. Come vedremo, questa visione della natura è un elemento importante della proposta di rinnovamento che papa Francesco ci offre: la terra è insieme nostra madre (perché veniamo da lei ed essa ci nutre) e nostra sorella (perché condividiamo con lei il nostro destino); è la casa comune degli uomini della quale siamo tutti costretti a interessarci perché da lei dipende il nostro benessere.
Ma proviamo a evidenziare i diversi passi del ragionamento del Papa. Si comincia con una domanda inquietante: che cosa sta succedendo alla nostra casa? Sono millenni che l’uomo abita la terra e questi millenni hanno visto numerosi, profondi cambiamenti. Il tempo è dimensione essenziale dell’esistenza e tutto ciò che esiste deriva da un evento: niente rimane lo stesso, tutto si trasforma. Ma negli ultimi secoli il ritmo del cambiamento naturale delle cose, che è normalmente lento, si è accelerato in modo incredibile a motivo delle trasformazioni operate dall’uomo; e queste trasformazioni non sono state tutte positive. Al contrario, sono state compiute scelte incaute che rischiano di ferire se non di distruggere la nostra abitazione nel mondo. Di queste scelte dobbiamo diventare consapevoli e il Papa ci fa fare un viaggio, seppure veloce, attraverso alcune situazioni problematiche del nostro mondo: inquinamento dell’ambiente, inquinamento da rifiuti, cultura dello scarto; alterazione del clima, questione dell’acqua (quantità, qualità, accesso di tutti); la perdita di biodiversità; il deterioramento della qualità della vita e il degrado sociale; l’inequità planetaria. Questo termine ‘inequità’ non è registrato nel mio vocabolario ma è illuminante perché unisce due termini: ‘inegualità’ e ‘iniquità’, disuguaglianza e ingiustizia; esprime quindi una disuguaglianza che non nasce dalla diversità delle persone o dei popoli, ma dalla prevaricazione ingiustificata di alcuni sugli altri. Naturalmente, l’elenco di papa Francesco potrebbe essere allungato e le singole voci approfondite. Ma non è la completezza che il Papa si propone. “L’obiettivo – scrive – non è di raccogliere informazioni o saziare la nostra curiosità, ma di prendere dolorosa coscienza, osare trasformare in sofferenza personale quello che accade al mondo, e così riconoscere qual è il contributo che ciascuno può portare.” (n. 19) Mi ha sorpreso e lo voglio perciò fare notare: papa Francesco desidera che noi impariamo a soffrire le ferite inferte alla natura, che le sentiamo nostre; dobbiamo quindi uscire da una riflessione astratta ed entrare in un pensiero personale nel quale siamo coinvolti con tutta la nostra vita. Forse ciò che ci deve preoccupare più di tutto è proprio la ‘debolezza delle reazioni’ a queste situazioni di fatto: è indifferenza? o rassegnazione? o abitudine? Le interpretazioni possono essere diverse, ma l’importanza della questione e quindi l’urgenza dell’appello sono evidenti: senza un sussulto di coscienza non sarà possibile invertire la rotta e il degrado diventerà sempre più profondo. Il primo e più pericoloso ostacolo da rimuovere consiste proprio nella convinzione che non ci sia nulla da fare.
Ora, quale strada dobbiamo percorrere se vogliamo giungere a questa conversione? Scrive il Papa: “se teniamo conto della complessità della crisi ecologica e delle sue molteplici cause, dovremmo riconoscere che le soluzioni non possono venire da un unico modo di interpretare e trasformare la realtà. È necessario ricorrere anche alle diverse ricchezze culturali dei popoli, all’arte e alla poesia, alla vita interiore e alla spiritualità.” (63) Ci troviamo qui di fronte a una delle chiavi della lettera, la chiave che definirei ‘metodologica’. Secondo papa Francesco non è possibile affrontare il problema ecologico isolandolo dal resto dell’esperienza umana, come fosse unicamente un problema tecnico: nel grande meccanismo del mondo, alcuni ingranaggi hanno grippato e il motore rischia di bloccarsi; bisogna sostituire i pezzi difettosi ed eliminare le cause che hanno provocato il loro cattivo funzionamento; per riparare il guasto, abbiamo bisogno di una buona tecnologia che ci offra i migliori pezzi di ricambio e di un buon meccanico che intervenga con competenza. Tutto questo, per il Papa, è vero ma non basta: i danni provocati all’ambiente sono collegati con un’economia tutta tesa a massimizzare il profitto; questa economia è intrecciata con una finanza che si alimenta da sé senza riferirsi costantemente all’economia reale; economia e finanza hanno messo al loro servizio la politica e ne condizionano pesantemente le scelte... e così via. È tutto il sistema della società nelle sue diverse espressioni che contribuisce a produrre gli effetti negativi che deprechiamo; è tutto il sistema della società che dovrà essere trasformato e orientato in modo diverso per produrre il benessere reale che desideriamo. E tutto questo non potrà avvenire se non ci chiediamo con lucidità quale tipo di uomo pensiamo di essere e quale tipo di uomo vogliamo diventare. Se l’uomo è pensato solo come produttore e consumatore di beni materiali, le nostre scelte avranno una certa direzione; se invece pensiamo l’uomo come soggetto in relazione con gli altri e con l’ambiente, come portatore e creatore di beni spirituali, come custode responsabile della natura, le decisioni saranno necessariamente diverse. Insomma, per il Papa il cuore del problema sta nell’uomo, nella sua coscienza e nella sua libertà. E’ l’uomo che può distruggere l’ambiente con i suoi comportamenti, ed è ancora l’uomo che può diventare custode saggio e rispettoso della natura scegliendo corsi di azione alternativi. Dobbiamo fare leva sull’uomo contro l’uomo, sull’uomo ragionevole e buono contro l’uomo irragionevole ed egocentrico.
Si rivela dunque necessario il ricupero di un’antropologia integrale, che sappia unire le diverse conoscenze specialistiche e le diverse tradizioni culturali, superando le visioni parziali che porterebbero a rimedi insufficienti e produrrebbero altri squilibri. Di fatto, uno dei leit-motiv che attraversano tutta la lettera è l’affermazione che “tutto è connesso,… è collegato,… è in relazione…” Si legga, ad esempio, il n. 117 (“quando non si riconosce nella realtà stessa l’importanza di un povero, di un embrione umano, di una persona con disabilità – per fare solo alcuni esempi – difficilmente si sapranno ascoltare le grida della natura stessa. Tutto è connesso. Se l’essere umano si dichiara autonomo dalla realtà e si costituisce dominatore assoluto, la stessa base della sua esistenza si sgretola.”) oppure il n. 138 (“Tutto è connesso…. Come i diversi componenti del pianeta – fisici, chimici e biologici – sono relazionati tra loro, così anche le specie viventi formano una rete che non finiremo mai di comprendere.”)
Si pensi ancora al n. 120 che recita: “Dal momento che tutto è il relazione, non è neppure compatibile la difesa della natura con la giustificazione dell’aborto. Non appare praticabile un cammino educativo per l’accoglienza degli esseri deboli che ci circondano, che a volte sono molesti o importuni, quando non si dà la protezione a un embrione umano benché il suo arrivo sia causa di disagi e difficoltà. Se si perde la sensibilità personale e sociale verso l’accoglienza di una nuova vita, anche altre forme di accoglienza, utili alla vita sociale, si inaridiscono.” Insomma la realtà va analizzata nei suoi componenti per comprenderne il funzionamento; ma va poi ricomposta nella sua integrità per tenere conto di come ciascun elemento, ciascun sistema parziale interagisca con gli altri elementi e sistemi, li condizioni, li renda operanti.
Mi permetto di insistere un attimo su questo punto. Le scienze moderne sono nate quando si è operata una scelta di astrazione, imparando a prescindere da molti, diversi aspetti della realtà per cogliere solo quegli aspetti che sono esprimibili matematicamente. Se Newton fosse stato interessato al colore della fatidica mela e al suo sapore – che sono pure dati importanti per capire cosa sia una mela – non avrebbe mai formulato la legge di gravitazione universale; per formulare quella legge bisognava fare attenzione solo ai dati di tempo, spazio e massa e cercare di collegare questi dati con una formula matematica. Il discorso del Papa non nega naturalmente nulla di questo procedimento scientifico; chiede, però, di arricchirlo o completarlo con altri tipi di approccio alla realtà, approcci non riconducibili a espressioni matematiche ma che hanno un loro posto importante nell’esperienza e nella coscienza dell’uomo. Insomma, l’approccio scientifico e tecnologico è necessario e imprescindibile, ma parziale e ha bisogno di essere inserito entro una visione complessiva dell’uomo e del mondo.
Ma qual è, secondo papa Francesco, il punto nodale del problema? Credo si possa affermare senza esitazioni che, a suo parere, il problema decisivo è quello del ‘paradigma tecnocratico’. Lo dice al n. 101: “A nulla ci servirà descrivere i sintomi, se non riconosciamo la radice umana della crisi ecologica… Propongo pertanto di concentrarci sul paradigma tecnocratico dominante e sul posto che vi occupano l’essere umano e la sua azione nel mondo.” Il procedimento è oscillante come deve essere il percorso del pensiero che riflette. Papa Francesco inizia riconoscendo alla tecnica e alla tecnologia tutto il loro valore di umanità. La tecnica – scrive citando Giovanni Paolo II – “esprime la tensione dell’animo umano verso il graduale superamento di certi condizionamenti materiali.” Dobbiamo quindi dare un primo giudizio positivo sul lungo sforzo che l’uomo ha fatto in questi ultimi decenni: con le diverse applicazioni della scienza si sono aperti per l’uomo nuovi e ampi spazi di libertà, si sono moltiplicate le sue possibilità di azione e di realizzazione. E tuttavia non dobbiamo essere ingenui: il possesso delle conoscenze e delle tecnologie, sempre più sofisticate e costose, viene a costituire un potere immenso che può essere fatto valere dai suoi detentori in tutte le sedi di negoziato, col rischio che le decisioni non siano determinate dalla considerazione del bene comune, ma siano l’espressione del potere vincente. La tecnica ha posto nella mani dell’uomo un potere sempre più grande – un potere che può essere usato per il bene ma può essere usato anche per il male. Per essere all’altezza di questo cambiamento, bisognerebbe che l’educazione morale dell’uomo fosse cresciuta di pari passo con l’accrescersi del suo potere, ma questo è ben lontano dall’essere riscontrabile. Sembra, anzi, che la sensibilità etica sia diminuita e che l’unica remora efficace ai comportamenti disonesti sia la sanzione inflitta dalle leggi e dai tribunali.
Non solo: il problema è ancora più profondo e consiste “nel modo in cui di fatto l’umanità ha assunto la tecnologia e il suo sviluppo insieme ad un paradigma omogeneo e unidirezionale.” (106) Il termine ‘paradigma’ è definito dal mio dizionario, un “insieme coerente e articolato di teorie, metodi e procedimenti che contraddistinguono in modo predominante una fase di evoluzione della conoscenza.” La conoscenza umana, dice il Papa, si è sviluppata negli ultimi secoli secondo un preciso modello che contiene in sé limiti e insufficienze. Secondo questo modello, il mondo è pensato come un oggetto inerte che sta di fronte all’uomo, una riserva di materiali di cui l’uomo può impadronirsi per realizzare, a suo piacere, prodotti utili o gradevoli. La conoscenza è fondamentalmente strumentale: serve, cioè, a conoscere i diversi materiali del mondo ma con lo scopo preciso di poterli usare in vista del proprio interesse. Corrisponde a questo modo di pensare l’idea che il mondo non abbia un suo valore in sé ma solo il valore che corrisponde al suo uso tecnico; che il mondo non abbia una sua forma ma solo quella forma che l’uomo decide di dargli secondo i suoi interessi; che il mondo non sia portatore di significati, ma soltanto di possibili usi. È questo ‘paradigma’ che condiziona le scelte delle persone e delle istituzioni e che conduce a un riduzionismo nei confronti della vita umana e della società: “occorre riconoscere che i prodotti della tecnica non sono neutri, perché creano una trama che finisce per condizionare gli stili di vita e orientano le possibilità sociali nella direzione degli interessi di determinati gruppi di potere.” (107) Questo paradigma è così profondamente impresso nella mentalità e nel vissuto contemporaneo che un’alternativa sembra addirittura impensabile, quando non viene bollata come oscurantista. In realtà, la tecnica ha la tendenza a fare sì che nulla rimanga fuori dalla sua ferrea logica e, qui il Papa cita Romano Guardini, “l’uomo che ne è il protagonista sa che, in ultima analisi, non si tratta né di utilità, né di benessere, ma di dominio; di dominio nel senso estremo della parola.” (108) E’ implicito, in queste ultime parole, un giudizio durissimo sulla nostra cultura che vale la pena evidenziare. Si sarebbe verificato, nella cultura contemporanea, un processo riduttivo della conoscenza: dalla filosofia (conoscenza dell’essere in quanto tale), alla scienza (conoscenza dell’essere materiale nella sua dimensione matematica), alla tecnica (applicazione della conoscenza scientifica a prodotti utilizzabili dall’uomo), alla tecnocrazia (uso dei prodotti della tecnica per l’esercizio di un potere). Non si tratta di deprecare i passi successivi di questo processo che in sé è legittimo, ma di deprecare il fatto che questi passi ultimi sequestrino al loro servizio quelli precedenti; insomma che tutto diventi alla fine orientato all’esercizio del potere e che l’esercizio del potere giustifichi e condizioni le altre dimensioni della conoscenza. Tra l’altro, questo è uno dei motivi per cui difficilmente la lettera del Papa – al di là di ossequi formali – troverà consensi diffusi: perché è una lettera che va direttamente contro uno dei dogmi del pensiero e della prassi contemporanea – che all’uomo tutto è possibile e che è lui solo, l’uomo, che può porre dei limiti alle sue scelte: né la natura delle cose, né il loro Creatore possono opporsi a questa rivendicazione di libertà del pensiero umano. Un eventuale riferimento a Dio può essere vissuto dai singoli nella loro esperienza privata, ma non deve entrare nella discussione dei problemi pubblici. Possiamo fermarci qui, ma non senza avvertire che proprio qui c’è il centro del pensiero dell’enciclica. Anche nei paragrafi successivi il Papa continuerà a mostrare il potere che il paradigma tecnocratico esercita sull’economia e la politica mettendole al suo servizio, in vista della tecnologizzazione di tutta la realtà, uomo compreso.
Si capisce, allora, perché papa Francesco insista così spesso sulla dimensione contemplativa della vita, sul valore della poesia, dell’arte e della bellezza in tutte le sue forme, sul legame vitale (e non solo strumentale) dell’uomo con la natura, sul volto che la natura presenta all’uomo che le si fa incontro, sul significato di cui ogni essere è portatore…. Tutti questi elementi si oppongono direttamente al paradigma tecnocratico e aprono prospettive di esistenza diverse. Leggo dal § 84: “Ogni creatura ha una sua funzione e nessuna è superflua. Tutto l’universo materiale è un linguaggio dell’amore di Dio, del suo affetto smisurato per noi. Suolo, acqua, montagne, tutto è carezza di Dio.” Più avanti: “Dio ha scritto in libro stupendo, le cui lettere sono la moltitudine di creature presenti nell’universo… la natura è una continua sorgente di meraviglia e di reverenza… Percepire ogni creatura che canta l’inno della sua esistenza è vivere con gioia nell’amore di Dio e nella speranza.” (85) Su questa linea sono numerose le citazioni che si potrebbero produrre. Naturalmente si deve ricordare qui anche la dimensione religiosa del problema ecologico. L’enciclica dedica un capitolo intero (il secondo) a trattare del “Vangelo della Creazione” e forse la cosa più importante da sottolineare è l’esistenza stessa di questo capitolo, che non va da sé. Si potrebbe pensare che il problema ecologico sia un problema ‘laico’ che va affrontato con gli strumenti del pensiero ‘laico’: dati, interpretazioni, ipotesi, sperimentazioni, programmi, verifiche ecc. E tutto questo è naturalmente vero, ma, per il Papa, è insufficiente: “In questo universo, composto di sistemi aperti che entrano in comunicazione gli uni con gli altri, possiamo scoprire innumerevoli forme di relazione e di partecipazione. Questo ci porta a pensare l’insieme come aperto alla trascendenza di Dio, all’interno della quale si sviluppa.” (79) Solo un pensiero aperto, che sa vedere oltre i limiti della propria specializzazione, che sa confrontarsi con molteplici approcci alla realtà, può diventare efficace nella trasformazione delle cose secondo un progetto saggio e realmente utile. L’emarginazione della dimensione religiosa, così radicale in molti campi della cultura contemporanea, è una forma di castrazione del pensiero che produce deformazioni agli altri livelli – spinge, per esempio, uno scienziato a illudersi di possedere, a motivo della sua competenza scientifica, tutti gli elementi necessari per rispondere ai perché dell’esistenza e agli interrogativi etici. Quello che ho accennato della religione andrebbe detto naturalmente per altri campi dell’esperienza umana come l’arte e la poesia, la filosofia e la storia.
È sempre a partire dal rifiuto del paradigma tecnocratico per mettere al centro lo sviluppo integrale della persona umana che si possono comprendere alcune posizioni di papa Francesco come, ad esempio, l’ampiezza data alla riflessione sulla difesa del lavoro. Se il lavoro è valutato solo per la produzione di beni di consumo, la quantità, velocità ed esattezza del processo di produzione diventano valori comunque positivi perché accrescono il potere dell’uomo. Ma il Papa ha un’altra visione delle cose e parla per sei paragrafi della necessità di “difendere il lavoro” e cioè di garantire a tutti l’opportunità di contribuire alla trasformazione della società e del mondo col proprio lavoro – anche se questo dovesse richiedere sacrifici dal punto di vista del PIL e della ricchezza globale. L’uomo è l’autore, il centro e il fine di tutta la vita economico-sociale, ha detto il Concilio; i valori economici debbono dunque sempre essere e rimanere valori umani, debbono contribuire al benessere integrale delle persone. Ora, il lavoro è attività nella quale l’uomo impegna ed esprime se stesso; attraverso il lavoro il singolo ha la percezione chiara di contribuire al bene di tutti; dall’esperienza del lavoro, quindi, deriva un senso più spiccato della propria dignità. Da qui la necessità di “perseguire, come priorità, l’obiettivo dell’accesso al lavoro… per tutti.” (Benedetto xvi) Conseguenza: “Non si deve cercare di sostituire sempre più il lavoro umano con il progresso tecnologico: così facendo l’umanità danneggerebbe se stessa.” (128) Il problema è quanto mai delicato e risale almeno al luddismo degli inizi dell’ottocento. Il Papa osserva che la riduzione di posti di lavoro e l’esclusione di più persone dai cicli produttivi rischia di erodere il capitale sociale che è invece assolutamente necessario per una convivenza civile sana. E non si ferma qui: chiede che si sappia immaginare un’economia alternativa a quella della produzione automatizzata di beni di massa: “perché continui a essere possibile offrire occupazione, è indispensabile promuovere un’economia che favorisca la diversificazione produttiva e la creatività imprenditoriale… le autorità hanno il diritto e la responsabilità di adottare misure di chiaro e fermo appoggio ai piccoli produttori e alla diversificazione della produzione.” (129)
Le diverse osservazioni dell’enciclica confluiscono nella proposta di una ‘ecologia integrale’ alla quale è dedicato tutto il capitolo IV. Cosa si intenda per ‘ecologia integrale’ il Papa lo dice nei nn. 137ss: una riflessione che unisca la considerazione dell’uomo nella sua integralità e della società umana in tutte le sue espressioni. “Non ci sono due crisi separate, una ambientale e l’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale”. Di conseguenza “è fondamentale cercare soluzioni integrali, che considerino le interazioni dei sistemi naturali tra loro e con i sistemi sociali.” (139) Si tratta di impostare un unico progetto che unisca insieme tre preoccupazioni: quella di combattere la povertà; quella di restituire la dignità agli esclusi; quella di prendersi cura della natura (ib.); economia, politica ed ecologia debbono darsi la mano e operare insieme. Già Benedetto xvi aveva scritto: “ogni lesione della solidarietà e dell’amicizia civica provoca danni ambientali.” (142) Papa Francesco fa sua questa visione delle cose e rimanda volentieri a una concezione integrale della persona umana. Nel n. 81 egli aveva detto che la capacità di riflessione dell’uomo, il ragionamento, la creatività, l’interpretazione, l’elaborazione artistica ed altre capacità originali mostrano una singolarità che trascende l’ambito fisico e biologico rimandando piuttosto a un’azione diretta di Dio. Potremmo dire: l’uomo viene dalla natura, è legato alla natura, ma nello stesso tempo è più grande dei suoi legami naturali, è creatura cosciente di sé, in dialogo con Dio. Nel n. 118 il Papa aveva combattuto quell’atteggiamento così diffuso nella cultura contemporanea che tende a svalutare l’uomo, negando o minimizzando la sua capacità di decisione libera e responsabile. Negando all’uomo la sua libertà e la coscienza morale, dice, la cultura contemporanea si dà la proverbiale zappa sui piedi perché “non si può prescindere dall’umanità. Non ci sarà una nuova relazione con la natura senza un essere umano nuovo… Quando la persona umana viene considerata solo un essere in più tra gli altri, che deriva da un gioco del caso o da un determinismo fisico, si corre il rischio che si affievolisca nelle persone la coscienza della responsabilità… Non si può esigere da parte dell’essere umano un impegno verso il mondo, se non si riconoscono e non si valorizzano al tempo stesso le sue peculiari capacità di conoscenza, volontà, libertà e responsabilità.”
Sulla base di queste premesse il cap. IV può parlare di ecologia integrale e cioè di una cura dell’ambiente che si faccia responsabile di tutte le dimensioni dell’ambiente umano, non di una sola. C’è un’ecologia ambientale, economica e sociale: questa si interessa di custodire un ambiente favorevole alla vita dell’uomo, di promuovere un’economia che faccia vivere gli uomini, una società che garantisca a tutti i diritti fondamentali e le possibilità di sviluppo umano. C’è un’ecologia culturale che si preoccupa di conservare e offrire all’uomo quel patrimonio di memoria e di pensiero che gli permetta di vivere in modo pienamente umano; si pensi alla poesia e all’arte, alla filosofia e al gioco, alla creatività e alle relazioni umane. C’è poi un’ecologia della vita quotidiana: bisogna individuare i luoghi in cui il vissuto quotidiano è diventato nevrotico e frustrante per ricuperare quelle relazioni interpersonali che permettono alla persona di essere consapevole di sé nel momento stesso in cui favorisce il riconoscimento dell’altro: l’affollamento della grandi città che tende a diventare anonimato, una gestione degli spazi pubblici che permetta alle persone di sentirsi a casa propria nel territorio, la casa e la proprietà della casa come sorgente di un senso di dignità e di sicurezza; il buon funzionamento dei trasporti… tutte queste cose contribuiscono a fare sentire lo spazio amico e a muovervisi con fiducia. C’è un’ecologia del bene comune che nasce quando le diverse persone imparano a cercare non solo il bene privato ma nello stesso tempo quello comune: “senza cercare il vostro interesse – scriveva Paolo ai Filippesi – ma anche quello degli altri.” Questa forma di ecologia suppone il riconoscimento che la persona umana è portatrice di valori inalienabili ordinati al suo sviluppo integrale; bisognerà quindi interiorizzare il dovere di solidarietà e l’opzione preferenziale per i poveri. L’ecologia del bene comune si apre necessariamente a quella dimensione che comprende anche il bene delle generazioni future: abbiamo ricevuto dai nostri padri una terra nella quale abbiamo potuto vivere; quale terra intendiamo lasciare alle generazioni future?
Quali proposte concrete fare per promuovere un’ecologia integrale? Due capitoli dell’enciclica – il quinto e il sesto – cercano di rispondere a questa domanda. Le dimensioni dell’azione sono molteplici: internazionali, nazionali, locali. A livello internazionale il dialogo è iniziato, ha prodotto alcuni risultati significativi (cfr 168), ma è ancora troppo timido. Bisogna andare decisamente verso scelte ecologicamente necessarie e urgenti: la sostituzione progressiva dei combustibili fossili con energie rinnovabili (165); la cura per la diversità biologica; il problema della desertificazione; le emissioni di gas serra.
Non posso qui fare l’elenco completo dei problemi che la lettera richiama. Vale però la pena sottolineare che, secondo il Papa, le responsabilità sono comuni (perché comuni sono le conseguenze delle scelte), ma sono nello stesso tempo differenziate (perché diverse sono le responsabilità della situazione attuale). Siccome la crisi è insieme ambientale e sociale, non ci meraviglierà di leggere che “per i paesi poveri le priorità devono essere lo sradicamento della miseria e lo sviluppo sociale degli abitanti,” la lotta contro la corruzione (172). Ancora, “abbiamo bisogno di un accordo sui regimi di governance per tutta la gamma dei cosiddetti beni comuni globali.” (174)
Il discorso si sposta poi al livello nazionale e locale per chiedere una legislazione che contrasti le scelte economiche e finanziarie che non tengono conto del bene di tutti e che incoraggi nello stesso tempo le buone pratiche. I rischi sono legati al desiderio di risultati immediati che favoriscano i consumi. Tipica dell’approccio del Papa è l’affermazione che “l’istanza locale può fare la differenza” e cioè la consapevolezza che la vicinanza tra la terra, il lavoro, il commercio e il consumo può immettere nel ciclo produttivo attenzioni preziose per il futuro dell’umanità. Bisogna, insomma, che le grandi imprese produttive e commerciali (le multinazionali, ad esempio) non possano schiacciare le piccole imprese con una concorrenza non regolamentata.
Ci sarebbero numerosi altri problemi da menzionare, ma questo è uno dei capitoli che non si riesce a riassumere; bisognerebbe anzi allungare l’esposizione dei singoli temi per essere in qualche modo efficaci. Non posso quindi che rimandare a una lettura attenta e a un approfondimenti dei singoli tempi con la documentazione necessaria.
L’ultimo capitolo, il sesto, è dedicato all’educazione e alla spiritualità ecologica. Per certi aspetti è, insieme al capitolo quinto, il capitolo decisivo, quello che dà concretezza a tutte le riflessioni che sono state proposte in precedenza. Senza un’educazione ecologica autentica, infatti, senza una spiritualità che motivi comportamenti ardui e rinunce dolorose, tutto il discorso precedente può rimanere lettera morta. Il Papa dice anzitutto il presupposto sul quale può edificarsi un’azione di educazione: “la coscienza di un’origine in comune, di una mutua appartenenza e di un futuro condiviso da tutti.” (202) Da questa consapevolezza deve scaturire un nuovo stile di vita che si liberi dal “meccanismo consumistico compulsivo” che ci condiziona(203) e trovi una libertà più grande di fronte all’uso delle cose. Non sarà facile perché l’abitudine al consumo fa percepire ogni rinuncia come una perdita alla quale ci si rassegna con difficoltà. D’altra parte, dice il Papa, “non esistono sistemi che annullino completamente l’apertura al bene, alla verità e alla bellezza, né la capacità di reagire, che Dio continua ad incoraggiare dal profondo dei nostri cuori.” (205) Ancora una volta, dunque, è alla persona umana che può rivolgersi l’appello; alla persona umana perché comprenda dove stia davvero la sua dignità e come si sviluppi davvero la sua libertà. È di Gandhi l’affermazione che il progresso della civiltà non consiste nel desiderio di moltiplicare i bisogni, ma nel diminuirli volontariamente. Papa Francesco si avvicina a questa linea quando dice che, in una visione corretta della vita, “meno è di più” e cioè: “il costante cumulo di possibilità di consumare distrae il cuore e impedisce di apprezzare ogni cosa e ogni momento. Al contrario, rendersi presenti serenamente a ogni realtà, per quanto piccola possa essere, ci apre molte più possibilità di comprensione e di realizzazione personale.” (222) Per giungere a questa vera e propria conversione bisogna anzitutto uscire dall’autoreferenzialità, aprirsi alla serietà e profondità delle relazioni umane, creare nuove abitudini che includano la rinuncia a possessi possibili. Alla conoscenza accurata dei rischi ambientali bisogna aggiungere la critica dei ‘miti’ della modernità basati sull’uso strumentale della ragione; sono quei miti che vanno sotto il nome di individualismo, fede in un progresso indefinito, concorrenza sfrenata, consumismo senza limiti, mercato senza regole. Tra queste abitudini da acquisire il Papa enumera alcuni gesti minimi “che hanno [però] un’incidenza diretta e importante nella cura per l’ambiente, come evitare l’uso di materiale plastico o di carta, ridurre il consumo di acqua, differenziare i rifiuti, cucinare solo quanto ragionevolmente si potrà mangiare, trattare con cura gli altri esseri viventi, utilizzare il trasporto pubblico o condividere un medesimo veicolo tra varie persone, piantare alberi, spegnere le luci inutili, e così via.” (211) L’elenco può sembrare pignolo, ma è significativa la motivazione che viene addotta per giustificarlo: “Tali azioni diffondono un bene nella società che sempre produce frutti al di là di quanto si possa constatare, perché provocano in seno a questa terra un bene che tende a diffondersi, a volte invisibilmente. Inoltre, l’esercizio di questi comportamenti ci restituisce il senso della nostra dignità, ci conduce a una maggiore profondità esistenziale, ci permette di sperimentare che vale la pena passare per questo mondo.” (212) Forse il cuore di questo stile nuovo di vita è la relazionalità sanata, cioè la capacità di entrare in un’autentica relazione di conoscenza, di amicizia, di amore con gli altri. Per un cristiano questa relazionalità ha il suo analogatum princeps nella Trinità stessa che è sussistenza di relazioni per le quali ciascuno trova se stesso nel momento in cui si dona e il dono di sé diventa sorgente della propria identità. Ma, in ogni modo, è vero per ciascuna persona che il senso dell’identità si acquisisce non chiudendosi in se stessi, ma costruendo pazientemente e faticosamente dei legami autentici con se stessi, con la natura, con gli altri, con Dio. “Stiamo parlando – scrive saggiamente il Papa – di un atteggiamento del cuore, che vive tutto con serena attenzione, che sa rimanere pienamente presente davanti a qualcuno senza stare a pensare a ciò che viene dopo, che si consegna ad ogni momento come dono divino da vivere in pienezza.” (226)
Concludo questa presentazione con un’osservazione e un auspicio: “Come mai, prima d’ora nella storia, il destino comune ci obbliga a cercare un nuovo inizio…. Possa la nostra epoca essere ricordata per il risveglio di una nuova riverenza per la vita, per la risolutezza nel raggiungere la sostenibilità, per l’accelerazione della lotta per la giustizia e la pace, e per la gioiosa celebrazione della vita.” (207) Sono parole della Carta della Terra (L’Aja, 2000) che papa Francesco fa sue e che desideriamo anche fare nostre.
+LUCIANO MONARI
30 ott 2015 00:00