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Brescia
di +LUCIANO MONARI 25 mar 2016 00:00

Monari ai sacerdoti bresciani: La vita del prete deve diventare vera oblazione

"Per il cristiano tutte le diverse forme di maturità si saldano tra loro e culminano nella carità; per il prete la carità prende anzitutto la forma del servizio pastorale". Nel ministero sacerdotale non mancano le difficoltà dettate dalla società ma anche dall'incontro con le persone, con i collaboratori e con i confratelli. Il compito del sacerdote, ha ricordato Monari nell'omelia della Messa crismale, deve essere quello di piallare il proprio "io appuntito"

Dal Signore risorto, partecipe della vita del Padre, viene il dono della grazia, dello Spirito, che edifica la Chiesa come corpo di Cristo e la fa crescere fino alla misura della piena maturità dell’amore. Così scrive san Paolo agli Efesini spalancando davanti ai nostri occhi il disegno di Dio, di “ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle della terra e quelle del cielo.” Il corpo di Cristo, generato da Maria per opera dello Spirito Santo nel quale Dio ha manifestato la forza invincibile del suo amore, quel corpo, dunque, nel disegno di Dio, deve imprimere la sua forma su tutta la storia del mondo, la vita degli uomini. Per ogni uomo vivere significa rinnovarsi e crescere verso la maturità intellettuale, etica, sociale; per il cristiano tutte le diverse forme di maturità si saldano tra loro e culminano nella carità, nella conformità a Cristo; per il prete la carità prende anzitutto la forma del servizio pastorale. La carità pastorale, lo si è detto più volte, è ciò che conferisce unità a tutti gli atti del nostro ministero: all’annuncio della parola, all’eucaristia e ai sacramenti, all’appartenenza al presbiterio, alle relazioni con gli altri, alle molteplici esigenze del ministero. Proprio attraverso l’esercizio del ministero dobbiamo costruire l’edificio della nostra santificazione. Di questo vorrei conversare brevemente con voi in questa giornata nella quale tutti insieme noi, presbiterio bresciano, rinnoviamo le nostre promesse di fedeltà a Cristo e di servizio ai fratelli nella Chiesa.

Abbiamo iniziato il nostro cammino di preti quando, ragazzi o giovani, abbiamo risposto con entusiasmo alla vocazione del Signore. Attorno a questa vocazione si sono condensati i tanti sogni della nostra giovinezza: sarò prete! Spenderò la mia vita per la gloria di Dio, per Gesù Cristo, per la Chiesa! Potere celebrare la Messa, insegnare la fede, avere una parrocchia; stare vicino alle persone, consolare, aiutare, sostenere. A queste motivazioni grandi se ne associavano, più o meno consapevolmente, anche altre: la stima sociale che circondava la figura del prete, l’imitazione di alcuni preti che ammiravamo, il fascino dell’altare, delle vesti liturgiche. Eravamo convinti che, seguendo questi desideri, la nostra vita sarebbe diventata bella, degna; con dei sacrifici, certo, ma sacrifici che davano gusto alla vita, che permettevano di tendere in alto, verso mete nobili: per aspera ad astra! Così iniziano le vocazioni. Anziché lasciarsi trascinare dalla corrente, avere un obiettivo grande nella vita. Per di più, il ministero del prete ha a che fare con le esperienze umane più intense: con la nascita e con la morte, con la famiglia e con la generazione dei figli, con l’educazione dei giovani e vita dello Spirito… quale professione può offrire così tanti stimoli alla serietà della vita, alla ricchezza di rapporti umani, alla generosità del servizio? Come cavalieri generosi, ci siamo gettati all’inseguimento della gloria; della gloria di Dio, s’intende!
Il primo confronto serio l’abbiamo dovuto provare subito, negli anni del seminario; anni belli come possono esserlo anni di vita comune con coetanei e amici ma anche anni con una loro durezza che ha messo alla prova il nostro desiderio: lo studio, la sobrietà, l’obbedienza, la disciplina non sono facili da sopportare per un ragazzo vivace; ma era necessario che il desiderio iniziale mostrasse la sua solidità. Il desiderio velleitario si nutre di immaginazione e non ha ancora fatto i conti con la realtà; la volontà, invece, pone un obiettivo ma sa anche accettare il tempo e la fatica che il cammino verso l’obiettivo comporta. Così il seminario ha collocato fin dall’inizio qualche paletto: ha tarpato qualche ala troppo disinvolta e ha scavato nei sentimenti per ancorare in profondità la chiamata del Signore. Gli ostacoli costringono la volontà a chiarirsi, a temprarsi, ad assumere la forma giusta: solo così la persona umana può crescere.

Arriviamo così in parrocchia: curati primi o secondi; poi parroci con le diverse attività pastorali: Messa, catechismo, magistero, incontri con i giovani, oratorio, confessioni, direzione spirituale… I sogni cominciano a realizzarsi; ma siccome il mondo non è stato pensato in funzione dei nostri desideri, i sogni non si realizzano mai come erano stati sognati. Bisogna fare i conti col parroco o, rispettivamente, col curato – nessuno dei quali – guarda caso! – corrisponde al manuale del bravo prete; ciascuno di loro ha una personalità ben squadrata con desideri propri, abitudini inveterate, schemi mentali irrigiditi; poi bisogna fare i conti con i laici che a volte sono restii a impegnarsi, a volte sono troppo invadenti; poi bisogna fare i conti con le strutture materiali che esigono attenzione cura responsabilità, creano preoccupazioni, impegnano tempo ed energie. Insomma, il ministero concreto non è solo l’annuncio appassionante del vangelo che immaginavamo.
A questo punto si presenta una scelta decisiva da fare. O rimanere legato al mio sogno e affermarlo con tutta la mia autorità di prete (“Il parroco sono io”, no?); accetterò allora quelle collaborazioni che si adattano al mio progetto e rifiuterò quelle che mi costringerebbero a cambiare la mia agenda. O cerco, invece, di mettere al centro gli altri con le loro caratteristiche, desideri, abitudini… la comunità che servo con la sua storia, le sue tradizioni, i suoi limiti. Imparare ad amare richiede questo sacrificio: non voglio che tu ti adatti ai miei desideri, ma voglio che tu cresca con quell’identità particolare che hai dal Signore. Non m’interessa che sia fatta la mia volontà, m’interessa che la tua libertà possa svilupparsi entro l’orizzonte del vangelo. Per questo ti annuncio la parola di Dio, poi ascolto, ascolto, ascolto, per capire prima di decidere, per decidere a tuo vantaggio e non per me, per decidere in comunione col presbiterio e non secondo preferenze private. Appartengono a ogni prete le parole del Battista: “Bisogna che Egli cresca e io diminuisca”, bisogna che le persone si leghino Cristo e dimentichino me. Quanto è difficile questa conversione: uscire dall’egocentrismo, dal narcisismo, dall’elefantiasi dell’io e gioire della crescita dell’altro, gioire proprio quando l’altro si allontana da noi per diventare se stesso. Ma quanto è necessario questo passaggio! L’affabilità, la dolcezza, il rispetto, la capacità di collaborazione, la fraternità, il senso di famiglia dipendono da questo. Ma non ci possiamo fare illusioni: si raggiunge questa meta solo accettando anche di essere feriti: ascoltare una critica senza reagire subito con risentimento, sospendere un progetto perché le persone non lo hanno ancora capito o accettato, trattare con dolcezza chi ha parlato male di te, non allontanare nessuno, anzi andare a cercare chi si è allontanato… è un cammino pieno di spine; ma è anche un cammino di liberazione – orgoglio, gelosia, supponenza, irritabilità, aggressività verbale, giudizi impietosi, questo e tante altre asprezze debbono sciogliersi e lasciare il posto alla bontà. Così s’impara ad amare; così il ministero diventa via di maturità e di santificazione.

Ho parlato dell’incontro con i parrocchiani e i collaboratori; ma bisognerebbe aggiungere la fatica dell’incontro con il presbiterio, col vescovo, con la curia, con la società e la cultura contemporanea, con i cambiamenti nella Chiesa – quella universale e quella particolare… Insomma, tutta una serie di confronti dai quali il nostro ‘io’ appuntito viene piallato. Vengono strappate vie tante illusioni, tanti bisogni. Possiamo chiuderci in noi stessi e tagliare i ponti con tutto ciò che ci inquieta e ci mette in discussione; forse soffriremo meno ma l’effetto sarà inevitabilmente la sterilità di una persona scostante, irrigidita dentro ai suoi schemi, incapace di gioire del mondo e di valorizzare il positivo che si trova magari in mezzo a incoerenze, immaturità, insufficienze. Nella capacità di fare spazio al Signore e alla sua parola, alle persone e al loro vissuto si sviluppa la nostra maturità personale nella forma di rinuncia alle immagini fantastiche dell’infanzia, ai sogni irreali dell’adolescenza, ai desideri egocentrici della giovinezza, ai bisogni di autoaffermazione dell’età adulta. Questo passaggio non è mai compiuto una volta per tutte e ha bisogno di continua sorveglianza: “Vegliate – diceva san Paolo agli anziani di Efeso – su voi stessi e su tutto il gregge.” Dobbiamo acquisire una sincera conoscenza dei nostri sentimenti, un certo spirito autocritico e anche una buona dose di autoironia. Quando ci estasiamo davanti a un pizzo forse ci serve saper sorridere di noi stessi – siamo ancora adolescenti; quando abbiamo desiderio di carriera, forse ci serve una sincera autocritica – siamo i discepoli di un crocifisso; quando usiamo parole offensive verso qualcuno, dobbiamo piangere amaramente davanti al Signore che quando era oltraggiato non rispondeva con oltraggi. Siamo partiti con l’entusiasmo di fare noi qualcosa di grande e ci troviamo a dover diventare “gli ultimi di tutti e i servi di tutti” (Mc 9,35).

Ma non è ancora tutto: “se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua.” (Lc 9,23) Quante volte abbiamo meditato queste parole! E abbiamo detto: sì! consapevolmente, disposti al sacrificio di noi stessi. Tota vita Christi crux fuit et martyrium; e tu tibi quaeris quietem et gaudium? abbiamo letto nell’Imitazione di Cristo: “Tutta la vita di Cristo fu croce e martirio; e tu cerchi per te riposo e contentezza?” (Imit. Chr. II,12,7). Il problema è che la croce non è mai quella che avevamo pensato e alla quale ci eravamo preparati. L’amore, scrive san Paolo, ou ze:tèi tà heautoù. La nostra Bibbia traduce: “Non cerca il proprio interesse”, ma il testo è più esigente e dice: “Non cerca ciò che è suo.” Padre Lyonnet spiegava: non pretende ciò che pure gli appartiene, non rivendica con puntigliosità ciò che, per diritto, è suo. Non si tratta di rifiutare la considerazione dei diritti; questi fanno parte integrante dell’ordine di giustizia in una qualsiasi società. Si tratta di rinunciare anche ai propri diritti quando in gioco c’è un bene grande degli altri, della comunità cristiana, della Chiesa intera. Di Gesù è detto che “non cercò di piacere a se stesso, ma, come sta scritto: Gli insulti di chi ti insulta ricadano su di me.” (Rm 15,3) Allora il ministero diventa rinuncia a se stessi, oblazione piena a Cristo. Ancora Paolo: “Ritengo che Dio abbia messo noi, gli apostoli, all’ultimo posto, come condannati a morte, poiché siamo diventati spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini. Noi stolti a causa di Cristo… deboli… disprezzati… Insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo; calunniati, confortiamo; siamo diventati come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti.” (cfr 1Cor 4,9-13) Mi vergogno davanti a questa immagine del ministero quando la confronto con il mio vissuto; eppure Paolo ha ragione. La vita del prete deve diventare vera oblazione, sotto diverse forme. C’è quella di un ministero arido e poco gratificante; c’è quella dei giudizi impietosi da sopportare. C’è anche, credo, quella che accompagna la fine delle responsabilità nel ministero quando siamo chiamati a sperimentare il distacco – come un piccolo anticipo della morte. Anche questo fa parte dell’amore: non posso pensare di essere indispensabile; non posso pensare che chi verrà dopo di me sarà meno capace di me. È giusto che lo spazio centrale venga occupato da persone che hanno più futuro davanti a loro e che possono condurre la Chiesa verso forme nuove, più efficaci di servizio. Impariamo così, con fatica, a dire di sì anche alla morte sapendo la morte è il sigillo necessario posto a un’esistenza di amore – quella del nostro presbiterato. Così il Signore ci faccia pensare e vivere.
+LUCIANO MONARI 25 mar 2016 00:00