Stefano Bonometti: il calcio oggi dimentica
È il recordman bresciano per numero di presenze con la maglia del Brescia Calcio (423) tra partite di Serie A, B e C e ha un palmares in cui brillano quattro promozioni in Serie A e una in Serie B, oltre al Torneo Anglo-Italiano del 1994. Classe 1961, il bresciano Stefano Bonometti è una pietra miliare della storia delle Rondinelle, in cui è cresciuto, calcisticamente e personalmente, da quando aveva 13 anni e dove ha trascorso praticamente tutta la sua carriera, se non per una parentesi di un solo anno ad Ancona (1989/1990). Il suo esordio risale al torneo 1978/1979, più precisamente nella gara casalinga contro la Sambenedettese, quando Stefano aveva solo 17 anni. Dopo aver appeso le scarpe al chiodo, nel 1997, ha intrapreso la carriera da allenatore nel settore giovanile bresciano (1997-2000). Da due anni è allenatore delle Under 15 della Pro Palazzolo femminile.
Tu che hai fatto grande il Brescia non hai ancora abbandonato il mondo del calcio! Sei stato il giocatore con il maggior numero di presenze, ma questo non ti ha garantito un futuro nelle Rondinelle...
Sinceramente, mi sento un dimenticato dalla società in cui ho dato tanto. Quando ho smesso di giocare, ho iniziato un percorso da allenatore nelle squadre giovanili, ma terminata la carriera agonistica avrei sperato in un maggior coinvolgimento all’interno del Brescia. Purtroppo, lo sport moderno ha perso il romanticismo e guarda ad altri interessi, per lo più commerciali o di immagine.
La malattia del calcio moderno è dunque la mancanza di umanità e di sensibilità?
Certamente. Si preferisce il profitto ai valori umani. Purtroppo, è la storia di molti ex come me. Basta pensare all’allontanamento di De Rossi dalla Roma. Le società sportive sono spesso di proprietà di fondi stranieri e non considerano il fattore umano. Un tempo ci si sentiva una grande famiglia e ci si aiutava anche a fine carriera, offrendo uno spazio di riconoscenza e di lavoro nella società. Oggi non è più così.
Quali sono i tuoi ricordi più belli al Brescia?
Tra tutti, la vittoria della coppa Anglo-Americana a Wembley: è stata una parentesi storica per i tifosi e per noi giocatori. Ero anche il capitano! Indimenticabile anche il doppio salto dalla Serie C alla Serie A in due stagioni. Quello fu un gruppo fantastico con giocatori con cui ancora oggi mi tengo in contatto. Non dimentico, però, anche gli anni bui in cui molti criticavano la squadra. E questo fa sempre male. Stavo dando il meglio di me, ma mi criticavano perché guardavano solo ai risultati. Trovai, però, la forza per rimane nel Brescia e continuare a lottare. Del resto sono un capricorno testardo e ho voluto prendermi una rivincita conquistando il successo.
Il tuo rapporto con Egidio Salvi?
Anche se non sono “vecchio” come lui, ho fatto più presenze in carriera. Lui andò un anno a Napoli e io uno ad Ancona. Salvi è stato il mio capitano nei primi passi al Brescia e ha sempre rappresentato un modello da seguire. Un grande esempio che mi ha aiutato a crescere, in campo e nella vita. Anche per questo con lui formammo un gruppo meraviglioso.
Ora che fai l’allenatore, sei diventato tu un modello per i ragazzi...
Non voglio sentirmi un modello, anche se sono contento che loro lo pensino. In questo modo, possono ascoltare i miei suggerimenti dando maggior valore a ciò che dico. Cerco di dare l’esempio e condividere con loro il risultato.
Anche con il Palazzolo femminile?
C’è molta diversità tra le squadre maschili e femminili. Le ragazze sono molto più sensibili e bisogna stare più attenti nel linguaggio, oltre che al carico fisico e tecnico. Va detto, però, che le donne in campo danno sempre tutto e non si risparmiano nel sacrificio. Ho vissuto due anni bellissimi nel Palazzolo femminile, trovando la massima collaborazione e sentendomi un papà in campo.
Dunque, un’esperienza dalle grandi soddisfazioni...
Sì, con un gruppo di ragazze fantastiche che si sono affezionate e sono riuscite a farmi piangere. Sono emozioni diverse da quando giocavo. Riuscire a far felice un gruppo perché ha raggiunto un successo è una cosa meravigliosa. É una scuola di vita senza tempo. Si insegna a desiderare e a conquistarsi il successo.
Anche tu sei stato chierichetto di mons. Cavalli?
E chi non lo è stato? Tra Messe dello sportivo e ritiri pre partita, in quegli anni non si poteva sgarrare. E poi un capitano deve dare sempre l’esempio! A dieci anni, servivo la Messa ogni mattina prima di andare a scuola. E dopo la celebrazione c’era la colazione a casa del parroco. Quella dell’oratorio era una seconda famiglia, di sport e di vita.
Oggi la chiesa può fare qualcosa per lo sport?
Io sono nato calcisticamente in oratorio alle Fornaci. Si giocava in trenta o quaranta ragazzi con pochi schemi e tanto agonismo, a piedi nudi su un terreno ghiaioso perché le scarpe erano un lusso. E se si tornava a casa con le scarpe sporche o rotte le si prendeva pure!
Quale augurio faresti oggi al mondo sportivo?
Di far tornare i ragazzi a giocare per divertirsi. Occorre investire di più nel settore giovanile, la vera ricchezza e il futuro delle nostre società.