Gino Corioni, uomo di sport e fede
Il ricordo di Gino Corioni, scomparso martedì 8 marzo, nelle parole di mons. Claudio Paganini, delegato vescovile per la pastorale degli sportivi
Un ricordo di Gino Corioni?
Ho tantissimi ricordi legati all’attività sportiva, imprenditoriale e anche legati alla fede. Era una persona con una grande capacità relazionale con Dio e con gli uomini. Era un uomo che ha sempre saputo dare grande risalto all’esperienza legata al valore umano, prima di tutto familiare, e poi sportivo. Grande imprenditore, Corioni, sia nel lavoro sia in famiglia, ha saputo dare alla brescianità una grande ricchezza. Quando papa Paolo VI incontrò il Brescia Calcio nel 1965, disse che la società era una realtà che possedeva grandi ricchezze, umane e valoriali, amando lo sport, segnavano molto bene. Sono convinto che Corioni ha raccolto quell’indicazione di testimone credibile e amante dello sport per fare della sua vita e di Brescia un grande linguaggio volto trasmissione di valori attraverso sport. È una figura che merita un ricordo e la nostra profonda stima.
Corioni è stato comunque un personaggio per certi versi controverso. Molti lo hanno amato, altrettanti, forse, non l’hanno capito appieno…
Certo. Si segue lo sport da innamorati, da amanti. Nello sport il tifoso è come un innamorato che non pone freno alle passioni, quando vinci ti esalti immensamente così come quando perdi soffri immensamente. In questo Corioni rappresentava l’immagine di un dirigente, di un presidente, che per passione comprava e vendeva, per passione idealizzava e sognava gli obiettivi. Questo per molti era una forma di “furbescheria”, un escamotage per non investire di più. Del resto, però, ha investito tanto affinché lo sport bresciano avesse il meglio: da Guardiola a Baggio, il meglio dello sport nazionale a Brescia è passato. Per questo noi tutti sportivi lo dobbiamo ringraziare, un grazie per il bene che ha seminato in questo ambiente.
Circa l’esperienza della malattia, lei gli è stato vicino in questi mesi?
Nel 2004 venne operato a un polmone. Da allora l’ho sempre seguito con amorevolezza e con cura. Io lo conobbi nel 1998 in Terra Santa, durante un bellissimo pellegrinaggio sulle orme di Cristo. Fu lì che mi conobbe e mi volle al Brescia calcio. Quando lo colpì la malattia fu lui stesso capace di grandi introspezioni volte all’approfondimento delle fede. Lui veniva da una famiglia contadina, con dei genitori molto religiosi, la fede era un’esperienza per loro di grande importanza. Essere un uomo di fede lo ha aiutato nell’affrontare con più coraggio la malattia. In questo non mancò mai. L’ultima volta che lo vidi mi disse: “Don, non sto molto bene ma a Pasqua vengo da te a Messa. Ci vediamo lì”. Per lui era molto importante questo approccio al dolore legato al discorso di fede.
R. GUATTA CALDINI
09 mar 2016 00:00