Bianchini: le sfide di un direttore sportivo
Ci si occupa sempre delle squadre di calcio con i riflettori su società, presidenti, allenatori e soprattutto calciatori, a prescindere dalla categoria nella quale si gioca. Di loro, si vuole sapere tutto o si presume di sapere tutto. È raro invece approfondire una figura che, anche nel settore dilettantistico, è sempre più presente: il Direttore Sportivo. Eugenio Bianchini, attualmente, ha questo ruolo nel Rovato Calcio, squadra bresciana che milita nel campionato di Eccellenza (Girone C lombardo) e fa parte dell’Associazione direttori sportivi di Brescia (la realtà ha 128 iscritti. Bianchini ne è stato presidente per 12 anni).
Come si diventa direttore sportivo?
La figura del DS è un po' particolare. Nel calcio dilettantistico, da circa dieci anni, il settore tecnico di Coverciano, in collaborazione con A.DI.SE. – associazione direttori e segretari –, ha istituito corsi per direttori riconosciuti fino alla Serie D. Questa qualifica ha un valore molto importante pur non essendoci ancora l’obbligo nei dilettanti e sta spingendo verso la realizzazione di corsi in tutta Italia in modo da avere sempre di più persone qualificate e preparate sugli aspetti contrattualistici (servono nozioni di diritto civile, diritto del lavoro, diritto commerciale, diritto sportivo, ndr) con approfondimento sulle procedure di gestione delle società sportive e dei singoli atleti, nonché essere la figura collante tra la società e la squadra.
Da dove si inizia?
Come tutto ciò che ruota attorno ai dilettanti, è la passione il motore che ti spinge verso questo tipo di figura. Ti trovi improvvisamente con l’età che ti allontana dal campo, ma con il cuore che vuole restare nell’ambiente, con i giovani, mantenendo quel contatto umano che, pur senza scarpe chiodate, ti crea la stessa adrenalina. Sembrerà strano, ma l’impegno temporale è notevole anche se si “gioca” nei campionati dilettanti. È frequente, nel nostro ambiente, avere una sorta di continuità: finita la carriera da calciatore, si inizia quella da direttore sportivo. Di solito si affianca chi è già direttore sportivo così da imparare il mestiere, scoprire le strategie. Non importa che tu sia allenatore, responsabile del settore giovanile o direttore sportivo, continuerai a calcare i campi di calcio: la “passione” ne resta il perno centrale e attorno alla voglia di vivere ancora questo ambiente ruota tutto.
È un lavoro a tutti gli effetti, anche da un punto di vista economico?
Tra i dilettanti, è evidente come i rimborsi economici non consentano di mantenersi economicamente. Quest’aspetto ti “costringe” a dover avere necessariamente un lavoro principale lasciando a questa passione di occupare il suo spazio nel cuore. Purtroppo, o a ragione, bisogna considerarlo un secondo lavoro con il quale si pareggiano le spese necessarie a seguire la squadra, magari si farebbe lo stesso da tifoso. La differenza è il dover seguire anche e soprattutto le altre partite, in modo da essere pronto per la stagione successiva sapendo chi acquistare come rinforzo per la tua squadra.
Qual è il ruolo di direttore sportivo?
Il ruolo del DS è un ruolo molto importante e da sempre sottovalutato. Si potrebbe paragonare al menisco di un ginocchio: ascolti, osservi, mantieni il legame della “squadra”, tra allenatore e staff, allenatore e società, allenatore e singolo atleta e, alle volte, tra allenatore e tifosi. Capita che la dirigenza, per ovvi motivi, venga al campo solo per la partita settimanale e non conosce cos’è accaduto durante gli allenamenti, ma giudica esclusivamente il risultato ed è pronto a sostituirsi a ognuno: il direttore sportivo deve arginare le invasioni di campo degli uni sugli altri e fare da collante con tutti. Il ruolo ci contraddistingue dalla prima partita o, per meglio dire, da quando la squadra parte per il ritiro e resta l’estate: si tratta del nostro momento “caldo” e non per ragioni di temperatura, perchè è il momento in cui il DS inizia a vedere la configurazione della propria squadra cercando di capirne rapidamente la completezza (ruoli, sostituti, obiettivi, ecc.) per far coincidere risultati futuri e obiettivi dalla società.
Lei quando ha iniziato?
Ho iniziato a fare il DS per la conoscenza diretta dei giocatori. Ero uno di loro fino all’estate prima: l’aver giocato con o contro di loro, avendo praticato calcio in quasi tutte le categorie, mi ha facilitato. Ho iniziato in seconda categoria aiutando a un mio amico allenatore che, costatando gli scarsi risultati, mi chiese se potessi consigliare qualche rinforzo nel mercato di riparazione a dicembre. Nel 2008, ho iniziato effettivamente a Botticino, in Prima Categoria: la cosa mi piacque non poco e compresi che quello era il sistema più semplice e diretto per restare sui campi da calcio e vicino ai giovani. Ora, con il Rovato Calcio, gravitiamo nel campionato di Eccellenza e questa scelta è stata dettata da altro. Ho preferito mantenere alta la concentrazione sui bisogni della mia famiglia (Eugenio Bianchini è sposato e ha due figli, ndr). Gli allenamenti per queste categorie si svolgono la sera e, per me, questo rappresenta anche una valvola di sfogo, pur mantenendo attiva e viva la passione per quest’attività. Alle volte, la vita pone davanti a delle scelte e l’ordine gerarchico con il quale ognuno di noi risponde delinea il sentirsi squadra, ma della propria famiglia.
Ai genitori si dice di avvicinare i ragazzi allo sport. Oggi con i social ci si allontana o è una congettura?
Non so se si tratti di una congettura o meno. Io vedo tanti ragazzi che fanno sport e più che i social, secondo me, il problema è stato il Covid e lo è ancora con parecchie problematiche legate alla psicologia infantile, preadolescenziale e adolescenziale: i ragazzi andati in crisi in quel periodo avevano già una scarsa propensione a una vita di gruppo e quell’isolamento li ha ulteriormente destabilizzati. Non è stato semplice per tutti affrontare quel periodo, ma è quello il momento in cui qualcuno ne ha pagato più di altri le conseguenze. È vero che i social distraggono molto, ma è altresì vero che esistono e vanno quindi tenuti in debita considerazione: solo se sfruttati bene possono dare una grossa mano. Se un ragazzo vuole fare sport non è certo l’uso dei social che lo allontana, conta più il ruolo della famiglia, che non dovrebbe mai utilizzare l’attività sportiva del proprio figlio come parcheggio da servirsi per proprie esigenze, ma comprenderne e approfondirne le attitudini dei propri figli: non tutti sono Messi o Ronaldo, ma chiunque può praticare il calcio e lo sport in generale. Spesso siamo noi genitori che vorremmo vedere in loro ciò che non abbiamo potuto realizzare noi e questo ci potrebbe portare a distrarre l’attenzione dal ragazzo, concentrandoci troppo su un nostro bisogno. Comunque, tornando alla domanda, i social dovrebbero essere utilizzati da tutti con parsimonia, specie i più giovani e più vulnerabili, che sono ancora troppi i messaggi fuorvianti e pericolosi facilmente raggiungibili.
Si predica bene e si razzola male: sono numerose le strutture sportive fatiscenti, incomplete o gestite male, la politica territoriale, regionale e nazionale dovrebbe fare di più?
Sicuramente, anche tra i dilettanti, la questione accoglienza, stadi, strutture sportive ecc. rappresenta un problema e non posso dire che il nostro territorio navighi nell’oro. Possiamo dirci però fortunati. Quando i Comuni non intervengono in modo sufficiente, sono le società sportive a sopperire. Nel calcio, la stragrande maggioranza dei club dei nostri territori hanno un proprio campo sintetico e strutture più che sufficienti, questo anche perché i genitori dei ragazzi sono molto esigenti e vigili sugli ambienti frequentati dai propri figli. Ai miei tempi, ci si divertiva a tuffarsi nel fango o anche giocare sul cemento e, una volta tornato a casa, si era costretti a lavarsi vestiti per evitare alla mamma il prelavaggio a mano. Una condizione improponibile oggi. Se lo dicessi a un genitore mi direbbe: “Tu sei pazzo, mio figlio prende la tosse, la bronchite, il raffreddore poi si sporca tutto!” (ride, ndr). Sulle squadre professionistiche, riscontro una qualche carenza determinata dalla effettiva capienza che si ripercuote sui settori giovanili: in quel caso, gli spazi non sono sempre sufficienti. L’unico centro che si sta sviluppando è quello del Brescia Calcio a Torbole Casaglia; il Lumezzane e la Feralpisalò stanno elaborando nuove idee, ma al momento si appoggiano a più strutture per consentire di allenare tutta la filiera delle giovanili.