Mons. Monari apre l'Anno Santo: rassegnarsi al male è il più grave dei peccati
Il Vescovo, davanti a 4000 fedeli, con l'apertura della Porta Santa, ha dato avvio in diocesi all'Anno Santo della misericordia. La sua omelia
Dopo il suggestivo rito di apertura dell'Anno Santo, nel corso dell'omellia il Vescovo partendo dalle letture del giorno, ha proposto una riflessione sul senso della misericordia e sulla necessità di vivere il Giubileo appena aperto all'insegna del perdono e della riconciliazione, come più volte richiesto anche da papa Francesco.
Questo il testo della sua omelia
“Gioia è la parola che domina la liturgia di questa terza domenica di Avvento: “Rallegrati – dice il profeta Sofonia – grida di gioia… esulta ed acclama con tutto il cuore… il Signore è in mezzo a te”; san Paolo gli fa eco esortando: “Siate sempre lieti nel Signore; ve lo ripeto: siate lieti… Il Signore è vicino!” E se Giovanni Battista annuncia il giudizio futuro che brucerà ogni ingiustizia come paglia, san Luca interpreta il suo messaggio come evangelizzazione del popolo, cioè annuncio di gioia. Per questo in comunione con Papa Francesco, in obbedienza a lui, abbiamo aperto una ‘porta santa’ in questa cattedrale con la speranza che tutti coloro che l’attraverseranno possano trovare perdono dei peccati, riposo dalle inquietudini, gioia in Dio e nella sua grazia. È l’invito di Gesù stesso quando ha detto: “Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo.” (Gv 10,9) Desideriamo che questa porta – il passaggio che introduce all’amore di Dio – sia spalancata a tutti e che tutti la possano attraversare senza timore. Il mondo oggi, nota il Papa, si presenta segnato da profonde ferite e da gravi ingiustizie; possiamo sperare in una guarigione? in un ordine di giustizia e di pace? Sì, lo possiamo, lo dobbiamo a motivo delle promesse di Dio. La rassegnazione al male è forse il danno più grave che i nostri peccati producono in noi togliendoci la speranza stessa e quindi l’impegno serio per un cambiamento, e diventerebbe difficile, per noi, uscire dalla spirale del male e della tristezza se non fosse Dio che in Cristo ci stende la mano e ci chiama, ci dice il suo amore e ci offre il suo perdono.
La gioia che il profeta Sofonia annuncia nella prima lettura non è una gioia ingenua, collocata in un mondo fatato, dove non ci sono sofferenze e tutto appare bello e gradevole. Al contrario, è una gioia che nasce in mezzo alla lotta, che si fa spazio tra le fatiche e le paure: “Il Signore ha revocato la tua condanna, ha disperso il tuo nemico. Re d’Israele è il Signore in mezzo a te, tu non temerai più la sventura.” Il perdono è gratuito, anche perché non riusciremmo mai a meritarlo sufficientemente con le nostre buone opere; Dio ha preso Lui stesso l’iniziativa, si è fatto prossimo a noi e ci ha avvolti con la sua misericordia. Gesù di Nazaret è stato nel mondo l’incarnazione della misericordia di Dio, le sue parole sono state grazia di consolazione, i suoi gesti un balsamo per rimarginare le ferite. Ho usato i verbi al passato per riferirmi alla vita terrena di Gesù, ma adesso debbo mettere il presente: Dio dice al mondo ancora una volta la sua misericordia e chiama tutti, ancora una volta, a lasciarsi riconciliare con lui e con gli altri. Di questo annuncio il Papa, i vescovi, la Chiesa sono gli ambasciatori, lo strumento vivo perché l’invito di Dio giunga agli orecchi di tutti.
Qualcuno rimane perplesso davanti all’annuncio insistente che papa Francesco va ripetendo parlando sempre di nuovo e solo della misericordia di Dio. C’è anche il giudizio, si dice – e Giovanni Battista ce lo ha ricordato con parole taglienti. Parlare solo di misericordia – si dice ancora – è rischioso; l’uomo, furbo com’è, si sentirebbe autorizzato ad afferrare subito il perdono e rimandare invece la conversione a un futuro indeterminato. Il dono di Dio diventerebbe così un sigillo posto sull’irresponsabilità dell’uomo, un comodo pretesto per non dover cambiare vita. Questo timore è ingiustificato: il perdono di Dio non è un atto esteriore, che diventa valido indipendentemente dalla volontà e dai sentimenti delle persone che lo ricevono. Se sono cattivo, Dio mi fa dono gratuitamente della bontà; ma è evidente che il dono della bontà diventa effettivo in me, operante, solo se divento realmente buono. Se sono disonesto, Dio mi offre gratuitamente il dono della giustizia; ma io ricevo il dono della giustizia di Dio solo se, con questo dono, comincio a comportarmi da giusto. Se sono infedele, Dio mi fa dono della sua fedeltà; ma questo dono è reale in me solo se divento a mia volta fedele. Insomma, il perdono di Dio è offerto al peccatore quali che siano i suoi peccati; ma il perdono di Dio agisce cambiando realmente l’uomo e trasformandolo da peccatore in giusto; e possiede davvero questa capacità – se l’uomo si lascia raggiungere.
Come? Anzitutto riconoscendo il suo peccato. Noi siamo prontissimi a condannare gli altri e ad assolvere regolarmente noi stessi. Ma questa tattica, se può garantire la difesa della nostra immagine sociale, è disastrosa nell’impegno che abbiamo di edificare noi stessi. Se mi giustifico, cioè se trovo mille argomenti per dire che il mio peccato non è un peccato, che le circostanze in cui mi sono trovato mi scusano, che la colpa è degli altri che non mi capiscono – il mio peccato, purtroppo, rimane. Non perché Dio si rifiuti di perdonarmi, ma perché io non permetto al perdono di Dio di giungere fino al mio peccato e risanare il mio cuore. I santi hanno parlato più volte del dono delle lacrime come esperienza di conversione. Certo, non sono le lacrime in quanto tali che guariscono perché ci possono essere anche delle lacrime insincere, che nascondono la verità; ma è il riconoscimento del proprio peccato quando giunge a suscitare un dolore sincero; allora non ci sono ostacoli all’azione di Dio e valgono le parole: “Dio ti ha perdonato; va’ in pace.” Aggiungiamo ancora: c’è un dolore dei peccati che nasce dalla ferita all’immagine che avevamo di noi stessi; o dalla vergogna di avere perso la stima degli altri. Non è un dolore cattivo: noi viviamo anche rispecchiandoci nell’immagine che gli altri ci trasmettono di noi stessi e la vergogna può essere uno stimolo utile per fare il bene. Ma è un dolore che deve maturare; che deve giungere a smascherare e rifiutare il male perché è male - prima ancora e più ancora che per i danni materiali che me ne derivano. Potessimo, con la grazia di Dio, giungere a questa forma di pentimento! Potessimo giungere ad amare il bene senza esitazioni e a rifiutare il male senza compromessi! In ogni modo, partendo da quanto il nostro cuore riesce a vivere, la grazia di Dio conduce verso una trasparenza più grande e quindi una gioia sempre più profonda. Ci è dato un anno di tempo per vivere il Giubileo; dobbiamo prendere questo anno nella sua interezza e farlo diventare un cammino progressivo di conversione.
La celebrazione del sacramento della penitenza sarà un momento forte di questo cammino. Bisogna però che la confessione non sia solo una ripetizione stanca di colpe superficiali. Deve andare in profondità, a rivedere il percorso della nostra vita, le motivazioni che ci hanno spinto nelle scelte, i desideri reali che ci hanno attirato; e dobbiamo superare la paura di conoscere noi stessi, di vedere in noi difetti che non vorremmo avere. Oggi abbiamo attraversato la porta santa e, in questo modo, abbiamo scelto di vivere questo Giubileo; bisogna però che questo gesto così significativo si dilati e si consolidi nel tempo. Solo quando la preghiera è ripetuta e si fa abituale, quando i sentimenti buoni s’insediano nel profondo del cuore e creano un atteggiamento costante di benevolenza verso la vita e verso gli altri, solo allora la grazia avrà operato una vera e piena trasformazione.
Un segno di questa trasformazione è quello ricordato da Paolo: “La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini” e cioè: tutti coloro che hanno a che fare con voi facciano esperienza della vostra affabilità, mitezza, bontà. Queste cose possono sembrare segni di debolezza ma invece mostrano la forza di chi è in pace con Dio e non si lascia quindi turbare troppo dalle difficoltà, dalle incomprensioni e nemmeno dalle sue proprie insufficienze. A questa pace del cuore dobbiamo tendere superando i risentimenti amari, le accuse aspre, le tristezze covate. Il peccato che nascondiamo in noi stessi ci rende tristi; la tristezza ci rende scostanti, aggressivi; l’aggressività ci isola – è il circolo vizioso del male. Viceversa, il perdono libera in noi la gioia; la gioia ci rende affabili; l’affabilità ci lega agli altri con un vincolo di simpatia e di rispetto – è il circolo virtuoso del bene. Dobbiamo andare decisamente per questa via vincendo ogni esitazione, ogni pigrizia. Lo dobbiamo per il nostro bene, per la nostra salute spirituale. Lo dobbiamo per il bene degli altri ai quali la nostra gioia trasmette serenità e fiducia. Lo dobbiamo finalmente per la gioia di Dio perché, come abbiamo ascoltato, “c’è più gioia, presso Dio, per un solo peccatore che si converte che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione.”
Vivere il Giubileo significa lasciarci trovare da Dio, dare gioia e gloria a Dio con il riconoscimento del nostro peccato e la proclamazione della sua giustizia. Con le parole del Miserere: “Riconosco la mia colpa, il mio peccato mi sta sempre dinanzi. Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi io l’ho fatto. [Lo confesso] perché tu sia riconosciuto giusto quando parli, retto nel tuo giudizio.” (Sl 51,5-6) Tutto questo sia “a lode e gloria della sua grazia che ci ha dato nel suo Figlio diletto.” (Ef 1,6)”
REDAZIONE ONLINE
16 dic 2015 00:00