Il dopo Ospedali psichiatrici giudiziari. Se il paziente è trattato, il suo passato violento non è un fattore di rischio
All'Irccs Fatebenefratelli sono stati presentati i risultati di una ricerca molto interessante: se i pazienti sono trattati in strutture che garantiscono il trattamento e il prendersi cura del paziente, prevenendo anche l’abuso di alcool o di sostanze, i comportamenti aggressivi o quelli francamente violenti contro le persona non vengono più ripetute
Aver commesso atti di violenza in passato non costituisce dunque un fattore di rischio, purché il paziente psichiatrico sia trattato in una struttura idonea, che garantisca assistenza e supporto, e prevenga fattori di rischio di particolare importanza per i comportamenti violenti, come l’abuso di sostanze e di alcool. Lo studio VIORMED rappresenta il primo studio longitudinale condotto in scrupolosa aderenza ai più rigorosi criteri internazionali mai realizzato in Italia: in breve, 82 pazienti affetti da disturbi mentali gravi (per due terzi sofferenti di un disturbo schizofrenico) e ricoverati in strutture residenziali del Nord Italia (tra i quali circa metà con un passato di ricovero in OPG o di incarcerazione), tutti con una storia significativa di comportamenti violenti (documentati a livello clinico), sono stati valutati con un sofisticato set di strumenti clinici e neuropsicologici (si pensi che ciascun paziente è stato valutato mediamente per circa 8 ore!). Tali pazienti sono stati comparati a 57 pazienti simili per età, sesso e diagnosi, ma che non avevano MAI commesso gesti violenti. Tutti sono stati quindi seguiti per un anno, e valutati ogni 15 giorni per rilevare l’eventuale occorrenza di episodi di aggressività verbale o contro gli oggetti, di auto-aggressività o di violenza contro le persone.
Tra i due gruppi non sono emerse differenze di rilievo nelle caratteristiche cliniche, psicopatologiche e cognitive, con la sola eccezione di una maggiore frequenza di sintomi cosiddetti ‘negativi’ in quei pazienti affetti da un disturbo psicotico. I sintomi negativi, infatti, rappresentati da inibizione, abulia, ritiro sociale, anaffettività, erano meno frequenti e gravi tra i pazienti che, durante l’anno di follow-up, facevano registrare una minore frequenza di comportamenti aggressivi. Ma il risultato più importante è che tra i due gruppi non si sono registrate differenze significative nell’emergenza di comportamenti violenti, se non per una lieve prevalenza di aggressività verbale nel primo gruppo, limitata alle prime settimane di valutazione. Pertanto i pazienti con storie di violenza, che però sono ospiti di strutture residenziali, in cui sono seguiti ed aiutati, non manifestano tassi di aggressività o violenza più elevati di quelli riportati da pazienti che non hanno mai commesso violenze nel loro passato.
Lo studio - finanziato dapprima dall’Ordine ospedaliero San Giovanni di Dio e poi anche dalla Regione Lombardia - è stato effettuato dapprima su pazienti ospiti di 4 strutture Fatebenefratelli del Nord Italia (Brescia, Cernusco sul Naviglio, San Colombano al Lambro e San Maurizio Canavese). E’ ora in corso la seconda parte della ricerca che coinvolge ben 250 pazienti seguiti dai Dipartimenti di Salute Mentale (DSM) di Brescia, Garbagnate, Legnano e Monza: questa parte del progetto consentirà di capire se simili considerazioni si applicano anche a pazienti a rischio di violenza seguiti ambulatorialmente; per costoro l’aderenza al trattamento non è garantita, come in struttura residenziale, e fattori di rischio importanti, quali l’abuso di sostanze e di alcool non sono automaticamente garantiti come nel setting residenziale.
I risultati di questa ricerca – la prima ampia ricerca condotta in Italia su pazienti a rischio di comportamenti violenti – sono di particolare importanza socio-culturale: è infatti noto come il binomio malattia mentale/violenza rappresenti uno dei principali fattori all’origine dello stigma che tuttora affligge i cittadini che soffrono di un disturbo mentale, e che spesso ne ritarda o impedisce una piena partecipazione alla vita della comunità.
In Italia gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari erano sei e ospitavano mediamente circa 1.400 individui autori di reato. Le leggi 9/2012 e 81/2014 hanno decretato la chiusura di queste strutture entro il 31 marzo 2015 ed il graduale trasferimento di tutti i pazienti a “Residenze per l’esecuzione di misure di sicurezza” (REMS), strutture gestite dagli stessi Dipartimenti di Salute Mentale in collaborazione con il Ministero della Giustizia: le REMS hanno particolari caratteristiche gestionali e dovrebbero avere non più di 20 posti-letto. Contemporaneamente, i pazienti a basso rischio saranno seguiti dai DSM. Questa “rivoluzione” comporta, ovviamente, una diversa responsabilità legale degli operatori sanitari e richiede una differente organizzazione degli stessi servizi di salute mentale. Ripetendo purtroppo gli errori già commessi con la legge 180/1978, non si è affrontato il nodo della formazione del personale, con il rischio di compromettere il disegno complessivo della riforma e soprattutto di negare, o limitare, a questi pazienti psichiatrici il diritto costituzionale alla salute (articolo 32).