Don Chiarini, l'essenziale al centro
Classe 1971, don Pierluigi Chiarini è il nuovo parroco di Montirone. Per il sacerdote originario di Castenedolo è la prima esperienza da parroco
Cosa è stato determinante nella sua scelta del sacerdozio?
Le figure che ho conosciuto nella mia formazione, sia in parrocchia che in seminario. Il mio parroco, il mio curato dell’oratorio a Castenedolo: lo stile dell’affetto, dell’amore nella presenza dell’oratorio l’ho imparato da loro. Hanno lasciato un bel segno. Io sono sempre andato d’accordo con i parroci, li ho visti come pastori: don Emilio Magrinello, don Aldo Delaidelli, per citarne alcuni che mi sono sempre stati di riferimento.
Cosa ha imparato in questi anni?
A conoscere la pazienza, a non pretendere tutto subito. In un giovane prete spesso è forte la tentazione di vedere subito i risultati. E poi il desiderio di ricercare ciò che è essenziale. In un oratorio anche il prete è tentato di fare tutto, vi sono molte cose, tantissime cose anche concrete da fare. Ma è necessario che il prete si concentri su ciò che è essenziale. Pazienza ed essenzialità.
Quali sono le attenzioni pastorali?
Innanzitutto, di mettermi in ascolto della realtà, seminare la parola, ma avere la pazienza dell’agricoltore. Che non è quella dell’artigiano e del fabbro che pretendono di forgiare i propri parrocchiani con il martello, o del falegname che pretende di forgiare i propri parrocchiani con la sega e la pialla, o del marmista che pretende di forgiare i suoi parrocchiani con martello e scalpello e farli a sua immagine e somiglianza. Ma quella dell’agricoltore che sa di seminare il seme buone della parola, vede quello che cresce, sapendo che crescerà qualcosa di buono, perché la parola è un seme buono. Con l’intento di far crescere persone ed esperienze di fede. L’altra priorità è il tempo dopo l’iniziazione cristiana. C’è molto il rischio che finito il tempo del catechismo in molti si perdano. E allora è importante il tempo dei giovani, della mistagogia. Il tempo dell’adolescenza e dell’attenzione alle famiglie. Attenzione alle famiglie, all’ammalato che hanno in casa, al bambino da battezzare, a quelle in crisi di coppia. Anche a Chiari seguivo un po’ tutti questi argomenti.
Quali sono le preoccupazioni?
Io non ho mai fatto il parroco. Ho sempre lavorato negli oratori, per cui il mio timore è quello di chiedermi se sarò all’altezza di tutte quelle competenze che spettano ad un parroco. Mi piacerebbe però essere giudicato non sull’aspetto gestionale, ma su quello pastorale. Non bisogna confondere il parroco come quello che finalmente è giunto a gestire bene la parrocchia. Tante volte si giudica un parroco sotto il profilo economico: se i conti vanno bene, se le iniziative messe in cantiere hanno portato soldi. Il parroco è un pastore, la domanda da porsi è se c’è il Vangelo nelle iniziative della parrocchia, se c’è il desiderio di crescere dei buoni cristiani.
In questi anni da sacerdote negli oratori, a Sant’Afra, a Roncadelle e a Chiari, ha notato cambiamenti nell’atteggiamento dei giovani?
È cambiato radicalmente. L’avvento dei social e l’arrivo di internet ha creato indifferenza verso gli oratori. C’è meno appartenenza. E meno frequenza nel venire negli ambienti. Prima i ragazzi venivano, magari con il pallone rompevano i vetri, sporcavano, facevano rumore. Oggi non vengono più in maniera naturale e spontanea. Stanno a casa. Seduti davanti allo smartphone, connessi in maniera diversa con il mondo. Vengono a chiamata, se c’è la festa, se c’è l’iniziativa. Dobbiamo migliorare e inventare sempre qualcosa di bello e di buono.
C’è un Santo al quale fa riferimento?
San Luigi Gonzaga. San Luigi era un giovane anticonformista. San Luigi, nato nobile, è passato dall’egoismo alla protesta, dalla protesta alla proposta, dalla proposta alla socialità e alla carità. Ha vissuto la sua vita come un dono da spendere per gli altri.
C’è un versetto del Vangelo che l’ha accompagnata in questi anni?
C’è un passo di San Paolo nella seconda lettera ai Corinzi: “Il Signore ama chi dona con gioia” (2 Cor 9, 7).