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Brescia
di ROMANO GUATTA CALDINI 21 lug 2017 13:03

Ceta. La battaglia di Coldiretti

Continua la protesta di agricoltori e consorzi Lombardi e non che contestano il Ceta (Comprehensive economic and trade agreement), il trattato di libero scambio fra l’Unione europea e il Canada. Con la ratifica del provvedimento verrebbe dato il via libera all'importazione dal Canada dell'"italian sounding". Ne abbiamo parlato con il presidente di Coldiretti Brescia e Lombardia Ettore Prandini

Continua la protesta di agricoltori e consorzi Lombardi e non che contestano il Ceta (Comprehensive economic and trade agreement), il trattato di libero scambio fra l’Unione europea e il Canada. Con la ratifica del provvedimento verrebbe dato il via libera all'importazione dal Canada dell'"italian sounding", le imitazioni dei prodotti tipici italiani. I parlamentari dovranno votare sulla ratifica del trattato dal 25 al 27 luglio al Senato per poi passare alla Camera.  Ne abbiamo parlato con il presidente di Coldiretti Brescia e Lombardia Ettore Prandini.

Presidente, cos’è il Ceta e qual è il motivo della mobilitazione?

E’ un accordo di libero scambio che non ha nulla a che fare con il principio di internazionalizzazione e di crescita del mercato estero per quanto riguarda il nostro comparto in quanto il Ceta viene volutamente utilizzato in termini strumentali. Vogliono far credere che c’è qualcuno intenzionato a puntare sulla crescita in termini di potenzialità nei mercati esteri, e noi ovviamente siamo favorevoli, e qualcuno, invece, che è contrario. Come noi esportiamo i prodotti dell'agroalimentare italiano nei mercati esteri -  parimenti, quando li importiamo - chiediamo e pretendiamo che questi siano realizzati con le stesse caratteristiche dei nostri. In che senso? Ad esempio attraverso i prodotti fitosanitari utilizzati. Purtroppo nell’accordo del Ceta questo non viene assolutamente rispettato. C’è un principio di eguaglianza: se sussiste un procedimento produttivo in Italia non è detto che debba essere rispettato in Canada. E’ sufficiente, infatti, che le autorità canadesi certifichino la produzione di quel prodotto (che abbia rispettato i loro parametri di legge) per far sì che noi lo si debba accettare così com'è.

Ora, in Canada sono presenti prodotti vietati in Italia da più di trent’anni perché nel nostro Paese abbiamo un principio di precauzione che mette al primo posto il cittadino e il consumatore. Quando c’è il dubbio che tale prodotto possa avere degli effetti negativi  sul consumatore, il prodotto non può essere commercializzato. In Canada succede l’opposto. Prima produco, poi vendo e, se ci saranno ripercussioni sulla salute del consumatore, sarà quest’ultimo che dovrà ricorrere contro la multinazionale o contro l’industria agroalimentare produttrice.

Abbiamo poi un problema che riguarda le Dop: è vero che ce ne sono 41, su 288 riconosciute nel nostro Paese, e che vengono tutelate, ma anche in merito a queste 41 viene assolutamente confermata la possibilità di utilizzare dei nomi che richiamano l’agroalimentare italiano, dei prodotti italiani, che nulla hanno a che vedere con le nostre materie prime, ma possono essere vendute sul mercato canadese.  L’esempio più classico è il Parmesan o le denominazioni riguardanti il prosciutto e tante altre eccellenze dell’agroalimentare che non sono più “italian sounding”, ( il termine coniato per le imitazioni ndr), ma entrano sotto tutti i punti di vista nel riconoscimento totale della possibilità di produzione proprio perché sanciti e inseriti all’interno del Ceta. E’ quindi ovvio che tutto questo – come Coldiretti, a fronte della battaglia che abbiamo sempre fatto per contrastare l’“italian sounding” – non lo possiamo accettare.

Può farci qualche esempio delle imitazioni straniere? 

Pensiamo alla denominazione dei salumi. I canadesi potranno utilizzare per i loro prodotti la denominazione prosciutto, scritta in italiano, senza alcun problema, commercializzandola anche in Europa. Stessa cosa dicasi per i formaggi; il gorgonzola, la fontina e il taleggio: sono alcuni esempi. L’unica specifica richiesta riguarda la presenza sul prodotto della dicitura, che sarà microscopica, “tipo taleggio”, “tipo fontina”.

Di fronte a un prodotto canadese chiediamo che abbia una denominazione che lo identifichi con il paese di provenienza, e non capiamo, anzi lo capiamo benissimo, perché si voglia utilizzare una denominazione italiana.

Secondo lei c’è il rischio effettivo che l’accordo con il Canada possa fare da apripista, che possa essere una sorta di cavallo di troia per accordi analoghi circa le produzioni agroalimentari?

Di più. Mentre con l’accordo con il Canada serve l’avvallo dei singoli Stati membri della Ue, basta che uno di questi non lo sottoscriva e non si può procedere a livello europeo con la ratifica definitiva, negli accordi successivi che ad oggi sono già 12 in attesa di essere approvati non ci sarà più bisogno della ratifica dello Stato membro. Basterà l’approvazione del Parlamento europeo perché  diventi Legge. Si tratta, secondo noi, di una privazione della sovranità del popolo, del suo potere decisionale nella scelta dei Paesi con i quali intraprendere rapporti di libero scambio e libera commercializzazione. Mi sono limitato a fare solo alcuni esempi ma le problematiche sono tante altre. Un elemento centrale della protesta che Coldiretti sta portando avanti è il codice doganale. E’ un principio per il quale non conta più la provenienza della materia prima, conta solo dove questa è stata trasformata nell’ultimo passaggio. Ciò significa che l’obbligo dell’origine, un tema sul quale ci battiamo da tempo, non varrà assolutamente niente. Potrà essere utilizzata la carne - come il latte,  il formaggio o l’ortofrutta, proveniente da altri paesi - per trasformarla in Italia affinché questa possa definirsi made in Italy o prodotto agroalimentare italiano. In sostanza la provenienza della materia prima non conterà più niente. Anche questo è un non senso perché l’agroalimentare italiano, nel suo principio di distintività, è invidiato nel resto del mondo per la qualità della materia prima utilizzata. Siamo di fronte a un accordo delle grandi multinazionali: chi ha l’interesse nel creare principi omologativi sono proprio loro. Più si va verso l’omologazione più non si distingue la qualità della materia prima utilizzata. Quindi si farà valere solo il marchio, ma sicuramente non la qualità del prodotto.

Quali sono le misure proposte in difesa dell’agroalimentare italiano?

A partire dai primi di settembre inizieremo un tour in tutte le città più importanti d’Italia dove affronteremo il tema del Ceta e degli accordi di libero scambio. Questi ultimi non è vero che portano a una crescita significativa della possibilità di poter penetrare maggiormente in altri mercati. E’ invece possibile farlo con una seria politica legata all’internalizzazione. Il tal senso l’Italia è molto arretrata rispetto a Paesi come Spagna o Francia. Spiegare alla cittadinanza cos’è il Ceta e il perché della nostra contrarietà è fondamentale. Chiederemo alla gente, al popolo, di unirsi a Coldiretti in questa battaglia affinché il nostro agroalimentare non venga utilizzato per l’ennesima volta da parte dell’Europa come merce di scambio per favorire altri settori produttivi.

ROMANO GUATTA CALDINI 21 lug 2017 13:03