Luca Pancalli: Dobbiamo resistere
Ad un anno di distanza dall’ufficializzazione della pandemia di Coronavirus Covid-19 che ha causato una vera e propria crisi sociale mondiale, tutti cercano di guardare al futuro con la speranza di chi ha però bene in mente quanto vissuto. Abbiamo raccolto la testimonianza di Luca Pancalli, presidente del Cip – Comitato italiano paralimpico, realtà che svolge un’attività sociale che va oltre l’agonismo e guarda ai diritti fondamentali della persona, rappresentando circa 2.300 Federazioni che si occupano di sport paralimpico e discipline sportive associate con i circa 16mila atleti tesserati con questi organismi, oltre che le circa 10mila persone con disabilità tesserate con gli Enti di promozione sportiva e tutti quelli che, seppur non tesserati, praticano sport all’interno delle Associazioni benemerite, assieme anche alle tantissime persone con disabilità che praticano sport a livello amatoriale.
Come sta vivendo il Cip questo momento di emergenza sanitaria?
Lo sta vivendo con le stesse difficoltà con la quali tutto il mondo dello sport italiano sta vivendo la crisi pandemica. Da un lato c’è un blocco totale delle attività di base, che è quello più pesante perché naturalmente viene meno una funzione sociale importante svolta dall’associazionismo di base sul territorio, nello stesso tempo continuano tutte le attività di preminente interesse nazionale, così come autorizzato dalle autorità di governo. Questo significa che sono in campo, in piena attività, soltanto tutti quei ragazzi e ragazze che sono in preparazione per grandi appuntamenti internazionali.
Sta per arrivare l’estate calda con le paralimpiadi di Tokyo, slittate di un anno proprio a causa del Covid-19, che dovranno svolgersi dal 24 agosto al 5 settembre 2021. Come vi state preparando all’appuntamento più atteso per l’atletica?
Il percorso agonistico continua, a parte il blocco subito nei primi mesi della pandemia, quindi tutte le attività agonistiche sono assolutamente in itinere. Noi ci stiamo preoccupando di quello che è di nostra competenza. Quindi attraverso le federazioni sportive nazionali, garantire che tutti gli atleti qualificati possano proseguire nei loro programmi di preparazione. Anche mancano pochi mesi. È chiaro che ci sono degli aspetti più problematici per alcune discipline per le quali i processi di qualificazione si sono interrotti a livello internazionale e si è in attesa di quello che gli organismi internazionali diranno per capire chi tra i nostri atleti, si è effettivamente qualificato.
Su quali discipline punta l’Italia per le paralimpiadi di Tokyo?
I punti forti della famiglia paralimpica italiana, sono paragonabili a quelli dello sport italiano dei loro colleghi olimpici. Siamo assolutamente in grado di continuare a scrivere straordinarie pagine dello sport azzurro nel nuoto, nell’atletica leggera, nel tiro con l’arco, nella pesistica, nel triathlon, nel canottaggio e quant’altro. Salvo sorprese, perché una Paralimpiade, così come un’Olimpiade, ogni tanto porta anche delle piacevoli sorprese con sé.
Vi siete sentiti abbandonati durante questo periodo di pandemia?
Devo dire che non ci siamo mai sentiti abbandonati, perché il rapporto ed il contatto è stato, sin dalle prime ore della crisi, costante e attento rispetto a quelle che sono le esigenze del mondo che io rappresento. Il vero problema, a mio modo di vedere, non lo hanno subito le grandi attività di vertice, il vero problema lo hanno subito le associazioni sportive di base e la funzione sociale che le stesse svolgono quotidianamente. Faccio un esempio, l’altro giorno mi ha chiamato un ragazzo di una disciplina molto particolare riservata a ragazzi con particolare gravità, il powerchair (ndr. attività praticata su carrozzine elettriche da persone di entrambi i sessi con disabilità motorie anche severe e progressive), il quale si lamentava del fatto che non essendo la loro un’attività riconducibile all’attività agonistica, perché sono privi dell’idoneità sportiva per motivi legati alle loro patologie, era costretto a vivere e passare le sue giornate sdraiato al letto. Questa è una nota esemplificativa di quello che significa lo sport per una persona disabile.
In questo anno si è interrotta la somministrazione di una medicina come quella che può essere sicuramente l’attività sportiva, intesa come strumento di integrazione ed inclusione, in assenza di altri sostegni da parte delle comunità territoriali. Per cui molte famiglie con all’interno dei disabili con particolare gravità o gravissimi e anche con disagio intellettivo e relazionale, all’improvviso si sono visti non somministrare più quelle due, tre, quattro volte a settimana, delle ore nelle quali i ragazzi uscivano di casa, andavano in una piscina, una palestra, un campo d’atletica e, grazie allo sport, partecipavano ad un momento di quotidianità e di socializzazione. Credo che questo sia il danno più grave che abbiamo subito, e non so quanto ci metteremo per riprenderci.
Come si può uscire fuori da questa situazione?
Secondo me c’è bisogno che il percorso di vaccinazione intrapreso dal governo, sia il più rapido possibile. Non so se al termine del percorso di vaccinazione riusciremo a tornare alla normalità che tutti noi auspichiamo, però certamente aiuterà molto. Perché le persone a maggior fragilità in relazione alle nostre patologie, sono quelle che obiettivamente rischiano pure tanto rispetto a un eventuale contagio. Per cui
io mi aspetto che da un lato ci sia questo percorso veloce, velocissimo di vaccinazione, dall’altro, di pari passo, un ragionevole governo del sistema sportivo che tenda a comprendere come lo sport non sia soltanto agonismo, ma molto di più.
A che punto è l’Italia nella politica in favore dello sport per disabili?
Prima della pandemia stavamo andando molto bene. Se si può registrare uno degli elementi di novità dello sport italiano negli ultimi 20 anni, questo è sicuramente rappresentato dal mondo paralimpico. Dal nulla, siamo riusciti ad avere non soltanto un’organizzazione efficiente con un’azione efficace e pervasiva ma, soprattutto, siamo riusciti a conquistare una visibilità che non avevamo fino a un po’ di anni indietro. Naturalmente è stato complice anche il fatto di aver intercettato lungo il cammino, degli straordinari atleti e comunicatori. Un pensiero, naturalmente, non posso non rivolgerlo ad Alex (Zanardi), ma penso anche a Bebe Vio, Martina Caironi, Assunta Legnante, Simone Barlaam e tanti altri che sicuramente hanno aiutato nella divulgazione di un messaggio. Siamo assolutamente consapevoli che questi atleti rappresentano soltanto la punta dell’iceberg e che noi dobbiamo rendere visibile tutto quello che è invisibile, ovvero il sacrosanto diritto allo sport delle persone disabili. Il diritto allo sport, inteso come pezzo del percorso per il riconoscimento del totale e pieno diritto di cittadinanza di tutte le persone, comprese quelle che hanno delle disabilità.
Cosa si sente di dire alle persone disabili in questo momento?
Resistere, resistere, resistere. Noi, nelle nostre vite personali, differentemente da tante altre persone, abbiamo vissuto momenti di lockdown personale: come dopo il trauma, nei periodi in ospedale o di riabilitazione molto lunga. Naturalmente questo è un periodo molto più complicato che coinvolge tutta la cittadinanza, però bisogna essere sempre ottimisti e sapere che una luce in fondo al tunnel c’è sempre. Bisogna sperare che questo tunnel sia il più corto possibile, perché francamente non avremmo immaginato un anno fa di trovaci ancora oggi così. Mi auguro che siamo veramente a un passo dalla svolta.