L'Everest "non voluto" di Matteo Bonalumi
“Salire sull’Everest è scalare le nostre paure, le nostre insicurezze. È scalare noi stessi”. Nelle prime righe del nuovo libro dell’alpinista bresciano Matteo Bonalumi (dal titolo “Everest, il sogno”, ed. Marco Serra Tarantola, che segue al primo, “Lassù, fino alle stelle”) si coglie fin da subito l’essenza di un racconto che non è solo la descrizione di un’impresa “quasi impossibile”, ma di un vero e proprio viaggio nella mente di un uomo che, seppur con tanti anni di scalate alle spalle, deve fare i conti con i limiti, imposti dalla montagna e dall’umano, della vetta più alta del mondo. Fresco di stampa, il volume sarà presentato sabato 9 novembre, alle 17.30, nella sede della Libreria Tarantola a Brescia.
Himalaya, Karakorum, oltre a vette in Argentina, India e Nepal… La scorsa primavera è stato tempo del sogno di ogni alpinista: l’Everest. Che esperienza è stata?
Un Everest solo in parte desiderato (ride, ndr). Mi spiego meglio. Il mio sogno era di raggiungere il tetto del mondo dalla Parete Nord cinese, meno frequentata e più affascinante. La via era stata chiusa nel 2020 e riaperta proprio nel 2024. Avviato, insieme ad alcuni compagni, l’iter per ricevere i permessi, abbiamo ottenuto un primo visto, ma mancava ancora il timbro del governo cinese. In attesa, abbiamo trascorso due settimane in una valle nepalese. Purtroppo, il permesso non è arrivato. Siamo tornati a Katmandu, abbiamo atteso ancora qualche giorno e, alla fine, è arrivata la risposta negativa. L’accesso era consentito solo agli alpinisti cinesi. Motivazione? Sicurezza nazionale. Alcuni alpinisti hanno così deciso di rientrare nei rispettivi Paesi. Io, con altri, dopo una lunga notte di riflessione, ho optato per scalare comunque l’Everest, ma dalla Parete Sud, con l’accesso dal Nepal.
Come ha inciso il cambio di programma?
Anche la valle nepalese è meravigliosa. Il problema è che, tra aprile e maggio, solo per il trekking, in quella zona sono previste 60mila persone. Lo stesso campo base è molto affollato. E un numero enorme di persone che camminano sull’unica traccia disponibile comporta numerosi rischi, in termini di attesa nei punti nevralgici, ma soprattutto un cambiamento dei ritmi che, a sua volta, provoca un’esposizione maggiore al freddo, un rallentamento dei tempi e l’impossibilità di godersi la montagna nella sua vera essenza. L’esperienza del Campo Base, poi, è stata piacevole: conoscevo molti alpinisti e sherpa e c’erano ogni giorno occasioni di relazione e scambio. Per esempio, è stato organizzato un Coffee Shop gratuito dove tutti potevano bere e mangiare insieme. Del resto, gli sherpa sono ottimi alpinisti, ma anche grandi uomini: con loro, si crea un rapporto indissolubile.
E la scalata com’è stata?
Per evitare di salire incolonnato, ho deciso di partire qualche giorno prima del previsto, in giornate proibitive a causa del vento. Dalle previsioni, sembrava che la sera coincidente con l’arrivo alla vetta, il vento si sarebbe calmato. Invece siamo arrivati al Campo 4 con la bufera ancora in corso. Con un vento a 120/130 chilometri orari, le condizioni diventano davvero proibitive: oltre al freddo e alle difficoltà nell’ascesa, è difficile bere e alimentarsi. A 8.200 metri abbiamo fatto un briefing: le raffiche erano micidiali e il corpo iniziava a mandare dei segnali di allerta. Nel buio più totale, a 8.500 metri, io e il mio sherpa abbiamo deciso di scendere. Un ragazzo africano che era con noi ha invece continuato: purtroppo, sia lui che il suo sherpa non hanno fatto ritorno. Aveva poca esperienza ed era mosso dal sogno di diventare il primo africano a scalare l’Everest senza ossigeno…
A così poco dalla vetta, com’è riuscito a far prevalere la razionalità sul sogno?
Ho un po’ di esperienza. Sapevo che quel dislivello, anche se “limitato”, in quelle condizioni, avrebbe comportato altre cinque ore in assenza di ossigeno, con una temperatura proibitiva… Oltre a me, avrebbe rischiato la vita anche il mio sherpa. Alla fine, la montagna rimane, mentre la nostra vita è una e una sola. Forse ce l’avrei anche fatta, ma il rischio era troppo alto e ho preferito rinunciare. Comunque, scendendo, mi sono tornate le energie e ho raggiunto, contrariamente a quanto si fa solitamente, il Campo Base. Ho camminato quasi ininterrottamente per 50 ore, salvo una pausa veloce al Campo 2.
Che giudizio dà di questa esperienza? Il sogno si è comunque realizzato?
Il giudizio è positivo. Alla fine, la vetta è solo un mucchio di sassi. Ho visto la montagna, sono entrato in una dimensione quasi impossibile con quella tempesta… Il mio sogno si è avverato, nonostante volessi farlo dalla Parete Nord. Secondo me, è sempre più importante inseguire il proprio sogno, cioè avere il coraggio di far avverare i propri desideri.
Tornare in Italia che effetto fa?
Non dobbiamo mai dimenticarci che noi viviamo in uno dei posti più belli del mondo. Le nostre montagne hanno una varietà di flora e fauna impressionante. Quando viaggio per scalare grandi montagne, vedo paesaggi meravigliosi, ma la mia mente torna sempre a casa: la bellezza che abbiamo noi è unica.
Come ci si prepara per affrontare montagne del genere?
Queste grandi montagne non si improvvisano. A queste altezze, ci si arriva con gradualità. La preparazione tecnica dura tutta la vita. Anche perché non siamo tutti uguali e, prima di tutto, bisogna capire se il proprio corpo sopporta queste altitudini. Bisogna abituare, giorno dopo giorno, il corpo alle salite e al peso dello zaino. Nei due mesi precedenti alla salita, l’allenamento diventa più serrato, con almeno 25/30mila metri di dislivello totalizzati al mese (che significa quasi mille metri di dislivello al giorno, ndr). Ovviamente, più si è allenati, più si ha la possibilità di tornare vivi.
Facciamo un passo indietro. Dove nasce l’amore per la montagna? Cosa l’ha spinta a imprese di questo tipo?
La passione è sempre stata il motore di tutto. Ma vale in ogni cosa. In queste montagne, dove c’è freddo, paura e solitudine e dove si fa così tanta fatica, la passione e la testa sono i due motori principali. Comunque, io ho sempre abitato a Brescia, ma avevo una casa in Franciacorta. Da bambino, quelle colline valevano come montagne per me. Scappavo con i miei fratelli e camminavo per raggiungere la cima. Anche mio papà era appassionato di rifugi, ma in maniera più goliardica (ride, ndr). Diciamo quindi che ho sempre respirato lo spirito della montagna. Guardare in su è sempre stata la mia passione. Diventato più grande, dai trekking sono passato all’arrampicata, poi sono arrivato al ghiaccio fino alle grandi montagne. Ecco perché parlavo di una preparazione che dura tutta la vita.
Qual è stata la prima vetta o la prima avventura che le ha fatto venire i brividi?
Penso il Campanile Basso sulle Dolomiti del Brenta.
Ha già un altro sogno nel cassetto?
Il mio sogno è continuare a vivere la montagna con questo amore e questa gioia. Se lo farò sulle grandi montagne o sul Sentiero numero 1 dell’Adamello, questo non lo so. Scrivo nell’ultimo capitolo del libro che, proprio nel giorno in cui sono rientrato dall’Everest, ho incontrato dei ragazzi del Cai in Maddalena. Per me è stato un segnale, come se dovessi passare il timone a questi giovani.