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Brescia
di MARIO TOFFARI 20 ott 2016 08:44

Immigrazione: tre proposte

Nell'editoriale del numero 39 di "Voce" padre Toffari oltre all'idea di lavori socialmenti utili per i profughi rilancia tre proposte: il rilascio di un permesso umanitario a chi arriva; un dignitoso rimpatrio negli Stati con cui sono in essere trattati di remissione; il potenziamento di corsie preferenziali per chi ha diritto alla protezione internazionale

Non si può negare che l’attuale situazione “immigratoria” stia generando situazioni non certo piacevoli, gli ultimi eventi di Chiari lo confermano, che oltre alla gravità intrinseca e al disagio dei cittadini, si prestano anche a strumentalizzazioni tutt’altro che corrette. Vorrei che tentassimo una riflessione su quattro punti, che, anche dalle pagine di “Voce”, sono sempre stati portati avanti.

Già all’inizio di questa seconda ondata di arrivi di richiedenti protezione internazionale, segnalammo che il problema non poteva essere risolto dalla sola Italia. Ma come al solito l’immigrazione ha svolto il suo ruolo di evidenziare i problemi del mondo a cui si rivolge e l’Europa ha rivelato il suo egoismo e la sua ipocrisia pagando purché solo alcuni Stati (Italia, Turchia e Grecia) si facessero carico del problema. E davanti all’Europa che ci ha “tirato un bidone” (ministro Alfano), giù il cappello al nostro Stato per le vite umane che è riuscito a salvare.

Il problema è acuito, e questo è il secondo punto, dalla vigente legge sull’immigrazione, cioè dalla Turco Napolitano, modificata dalla Bossi Fini. Alla persone a cui non è lecito rimanere sul suolo del nostro Stato viene consegnato un foglio di via con l’obbligo di lasciare entro un determinato tempo il Paese.

È chiaro che chi è arrivato da noi senza neanche un vestito non ha i soldi per tornarsene in patria e finisce con l’andare a gonfiare lo stuolo dei “clandestini” o “irregolari”, serbatoio di lavoro nero e anche di possibile delinquenza.

Non si possono, a mio parere, considerare la clandestinità e l’irregolarità come fenomeno fisiologico delle società occidentali. Occorre, invece, trovare una soluzione: questo vuol dire regolamentare l’immigrazione. Abbiamo lanciato nel merito tre proposte: il rilascio di un permesso umanitario a chi arriva in attesa che nei Paesi di origine si risolvano le situazioni che hanno provocato l’emigrazione; un dignitoso rimpatrio in quegli Stati con cui l’Italia e gli Stati europei abbiamo in essere trattati di remissione. Terzo, il potenziamento di corsie preferenziali per quanti riusciamo a identificare e a giudicare in diritto della protezione internazionale prima dell’ingresso in Italia.

Certo, tutto questo richiede di intendersi una volta per tutte su un concetto fondamentale: questi immigrati sono persone che hanno diritto di richiedere la protezione internazionale e di essere ospitati sino a quando tale protezione sia concessa o rifiutata. Quanto però noi portiamo avanti da tempo e che, con piacere, vediamo finalmente all’attenzione del governo, è non solo la possibilità, ma il dovere di queste persone di lavorare per la comunità che li mantiene. Al diritto di essere accolti corrisponderebbe così un dovere. Non si tratta di togliere lavoro agli italiani, sia chiaro, ma di realizzare quelle opere che oggi non riusciamo a realizzare per mancanza di forze o di fondi. Il senso della nostra proposta non è solo quello di ricavarne un utilità per la comunità italiana ma anche di valorizzare il richiedente protezione internazionale che nella lunga, troppo lunga, attesa di essere giudicato, si sente una persona inutile e quanto mai soggetta a sentimenti che non spingono sicuramente al meglio.

Mi permetto di ricordare che quando ero nella commissione di pastorale sociale diocesana, allora presieduta da mons. Corti, proponemmo la possibilità di lavori utili, magari con un piccolo riconoscimento, anche per quegli italiani, che erano in cassa integrazione. Questo per rispetto a persone che rischiavano di sentirsi inutili o, peggio, di essere riserva di caccia per il lavoro nero. C’è un’ultima annotazione che riguarda la nostra città di Brescia: negli anni Novanta la sua popolazione era di 196.598 abitanti e di questi 1938 erano immigrati. Lo scorso anno Brescia aveva 197.079 abitanti, compresi 36746 immigrati (senza contare quelli che hanno preso la cittadinanza italiana). I bresciani doc sono diminuiti in 22 anni di 35mila unità: un calo che possiamo notare guardando il numero delle case vuote e di quelle in rovina. Credo che, come minimo, si debba dire che la sopravvivenza della nostra vita a Brescia è legata all’immigrazione, naturalmente regolata, perché solo così possono arrivare “consumatori” giovani a integrare il nostro tessuto sociale che, ahimè, invecchia e genera molto poco. Se ci sforzassimo di uscire dai massimalismi, siano essi buonisti o cattivisti, probabilmente scopriremmo, con il Vangelo, che l’aver accolto lo straniero che aveva fame, sete, o visitato quello che era malato o in carcere, non costituisce la distruzione della nostra società ma, anzi, avendo noi accolto Cristo in quelle persone, scopriamo che abbiamo sviluppato la nostra società.


MARIO TOFFARI 20 ott 2016 08:44