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Brescia
di LUCIANO EUSEBI 21 dic 2017 15:22

Dat: un testo migliore era possibile

Luciano Eusebi, ordinario di Diritto penale all'Università Cattolica di Milano commenta la legge sul biotestamento approvata in via definitiva dal Senato nei giorni scorsi

Non sarebbe stato difficile avere un testo legislativo migliore. Ma si è preferito non dialogare, e ne è derivato un testo denso di ambiguità. Molto si giocherà sul piano interpretativo e nella prassi. Ma sarebbe ingenuo non vedere l’apertura a utilizzazioni distorte rispetto ai fini dichiarati. Il che solleva anche la questione relativa a un aggiornamento del modo di porsi di chi muove da sensibilità cristiane nell’elaborazione delle leggi in democrazia.

Il punto di equilibrio avrebbe dovuto essere il seguente: è necessario chiedersi «fin dove si debba arrivare» in contesti avanzati di malattia nell’utilizzo di risorse tecnico-sanitarie che solo pochi decenni orsono non sussistevano e si tratta di attribuire in ciò il giusto rilievo, come ha ricordato il Santo Padre, alla coscienza informata del malato, onde salvaguardare l’appropriatezza dell’intervento terapeutico e garantire che esso rappresenti davvero un beneficio per il suo destinatario; non si tratta invece, come egualmente ha ammonito più volte il Santo Padre, di favorire dinamiche di «rottamazione», formalmente consensuale o anche non consensuale, di soggetti deboli, dei quali non è possibile recuperare una piena efficienza fisica, e che rappresentano, per la società, un «costo». Fingere di non vedere che a monte dell’intera problematica aleggia la tentazione di ridurre l’incidenza economica dell’impegno sanitario con riguardo a certe condizioni di vita (in una società nella quale diminuisce sempre più la percentuale della popolazione giovane attiva) sarebbe un’ipocrisia, tanto più per chi muove da ideali politici di solidarietà sociale.

Invece abbiamo una legge che contraddice uno dei punti di convergenza più solidi dell’etica medica e non solo: quello per cui un’espressione della volontà riflette davvero l’autonomia del dichiarante se è «informata». L’idea di disposizioni vincolanti (salvo uno spazio valutativo ristretto) per il medico, le quali non necessitano circa la loro validità della controfirma di un sanitario che attesti l’informazione sul quadro patologico cui si riferiscano, sui loro effetti, sull’assenza di pressioni psicologiche o di patologie depressive, sull’offerta adeguata di medicina palliativa, è una stravaganza che risponde alla logica – antitetica a quella rappresentata dall’«alleanza terapeutica» – di un medico chiamato a essere solo esecutore di volontà, comunque esse si siano determinate (vi è peraltro un riferimento iniziale di principio all’esigenza dell’informazione, che dunque va valorizzato).

La legge, d’altra parte, si dimentica del consenso non appena potrebbe operare in prospettiva opposta al rifiuto delle terapie. Nessun dubbio, ovviamente, che si debbano interrompere le terapie nell’«imminenza della morte», ma perché si scrive che il medico «deve» astenersi da trattamenti «sproporzionati» anche nei casi di «prognosi infausta a breve termine»? Il fatto è che quello di prognosi «a breve termine» è concetto vago, esteso in letteratura a una previsione di morte (ma di quale livello statistico?) a sei mesi, un anno o addirittura due anni. Così che taluno potrebbe sostenere l’opinione per cui, presente tale generico requisito, il giudizio sulla proporzionatezza dei trattamenti sia solo medico, dimenticando come esso, invece, non possa prescindere dal rapporto col paziente. Del resto, quel giudizio è pertinente rispetto a qualsiasi atto terapeutico.

La cosa è tanto più delicata perché – in contrasto con le pronunce della Corte costituzionale sull’ambito di competenza proprio del medico – ci ritroviamo con la dichiarazione ex lege secondo cui l’alimentare e l’idratare, se solo realizzati mediante dispositivi medici, costituirebbero in qualsiasi fase o quadro clinico «trattamenti sanitari»: per cui non solo si potrebbero ipotizzare disposizioni anticipate riferite al mero essere alimentati o idratati, e non a uno specifico contesto degli atti medici necessari per rendere possibile tale sostegno vitale, ma si potrebbe anche temere che, assimilando impropriamente il termine «sanitario» al termine «terapeutico», si ritenga di poter giudicare sproporzionate l’alimentazione e l’idratazione senza alcun riguardo alla volontà del paziente.

Di fronte a queste, e altre, problematicità, si è evocata l’obiezione di coscienza rispetto ad adempimenti che eccedano l’ambito dell’accettabile secondo la visione morale cristiana, e in particolare rispetto a strutture sanitarie cattoliche. Ma, a parte il fatto che queste ultime dovrebbero rimanere salvaguardate in base alle norme concordatarie, invocare l’obiezione significherebbe riconoscere che l’interpretazione di alcuni passaggi della legge non possa che essere quella aperta a esiti eutanasici. Sin dove possibile, appare dunque opportuno adoperarsi affinché l’interpretazione non debordi in quel senso. Semmai, il problema attiene all’esigenza che – nel momento in cui si richiedano al medico specifici atti positivi in attuazione delle disposizioni di trattamento – venga rispettato il diritto di ciascun medico, riconosciuto dal codice deontologico, di non effettuare «prestazioni in contrasto con la propria coscienza o con i propri convincimenti tecnico-scientifici».

Da ultimo, come già s’è detto: è necessario che l’ambito cattolico assuma capacità di interazione e proposta anche nella fase elaborativa di leggi che manterranno profili problematici sul piano etico. Agire sempre e solo a posteriori, in senso critico e di mera opposizione rispetto alle proposte pur inadeguate provenienti da altri ambiti, può non favorire affatto – e non è la prima volta che accade – il raggiungimento del risultato migliore possibile. Chi scrive ha cooperato alla formulazione, sia alla Camera che al Senato, di emendamenti costruttivi: e alla Camera non senza alcuni esiti di rilievo, rispetto al testo iniziale (p. es., il citato riferimento di principio all’esigenza dell’informazione). Al Senato, invece, la presentazione di migliaia di emendamenti ostruzionistici, sostenuti anche da cattolici, ha finito per fare da alibi onde portare in aula il testo approvato alla Camera senza alcuna ulteriore discussione (in base alla ben poco edificante alternativa con quello sullo ius soli), così che gli emendamenti ad intento migliorativo, di fatto, non sono stati nemmeno presi in esame. Immaginare sempre, tuttavia, nuovi scenari politici che saranno tutti inclini, nel futuro, a recepire le istanze del mondo cattolico o è ingenuo o è insincero. Non sono più i tempi e, a onor del vero, non lo sono mai stati. Bisogna saper essere presenti nei contesti pluralistici. Nulla di nuovo: si rilegga la lettera a Diogneto. Sul tema, ho da poco curato un volume (Il problema delle «leggi imperfette») edito da Morcelliana, con contributi teologico-morali di spessore (anche del «nostro» mons. Carlo Bresciani). Ovviamente è rimasto, fin qui, più o meno ignoto. Non sono certo questi i temi importanti…

LUCIANO EUSEBI 21 dic 2017 15:22