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Brescia
di ROMANO GUATTA CALDINI 19 apr 2015 00:00

Eugenio Corti, soldato del "Regno"

Si è tenuto giovedì 16 aprile il secondo appuntamento del Mese letterario. La serata, organizzata dalla Fondazione San Benedetto, è stata incentrata sulla produzione letteraria di Eugenio Corti, grazie alla presentazione di Paola Scaglione

Ci sono uomini che, nonostante le avversità della vita, riescono a rimanere fedeli a se stessi, fedeli a una promessa fattasi da ragazzi. E’ il caso di Eugenio Corti che - nell’“inferno di neve” della campagna di Russia (1942-1943), durante la Seconda guerra mondiale - promise di mettere la sua vocazione alla scrittura a servizio della verità, a servizio di Dio. Chi è Eugenio Corti? “Un uomo grande, grandissimo; già all’indomani della sua scomparsa ‘Le Figaro’ parlava di 'un uomo immenso'” ha affermato Paola Scaglione, giornalista, saggista, profonda conoscitrice dell’opera e della vita di Corti, ma soprattutto custode delle memorie di questo formidabile testimone del ‘900, scomparso lo scorso anno nella sua Brianza, all’età di 93 anni.

Era di nuovo gremito l’auditorium Balestrieri di Brescia, giovedì 16 aprile, in occasione della seconda serata del Mese letterario. “Siamo convinti che è proprio in una fase storica come questa che abbiamo l’opportunità di ricominciare, di guardare la realtà in modo nuovo” ha affermato Giannantonio Sampognaro, responsabile della proposta culturale targata Fondazione San Benedetto, entrando nel vivo del tema di quest’anno, “E’ ancora più forte la speranza che la paura”. La speranza, diceva don Giussani, è uno sguardo positivo sul futuro in forza di una certezza presente. E’ partendo da questo assunto che Sampognaro ha sottolineato la modernità di Eugenio Corti, la sua capacità di approcciarsi al mondo con la certezza della speranza che, nel pensiero dello scrittore brianzolo, non risiede in un futuro più o meno probabile; per Corti la speranza è qui, adesso; per questo le sue opere, oggi come ieri, aiutano il lettore ad affrontare la quotidianità in tutta la sua concretezza."Nell'epica del quotidiano - ha commentato Paola Scaglione - il particolare si sposa con il globale. E' in questa dialettica che si palesa la radice della speranza: la certezza della presenza di Dio nella Storia".

“Ho intenzione di scrivere un’opera che serva potentemente alla gloria di Dio sulla terra, mi pare di essere stato creato proprio questo” si legge negli scritti giovanili di Corti. Da questa volontà nacquero capolavori come “I più non ritornano”, “Processo e morte di Stalin”, per giungere, nel 1983, alla pubblicazione, per le edizioni Ares, de “Il cavallo rosso”, il romanzo più celebre; queste sue opere non sarebbero state mai concepite se Corti, nel dicembre del ’42, non avesse partecipato alla ritirata di Russia, volontario sul Fronte del Don, in qualità di ufficiale di artiglieria, nel 35° Corpo d’armata. “In quella notte di Natale – ha ricordato la relatrice –  Eugenio (non aveva ancora compiuto 22 anni) è nel pieno di una marcia terribile, la media delle temperature oscilla fra i 20° e i 30° sotto zero, la notte arriva a -47°. Non ci sono viveri, munizioni, carburante, la prospettiva è di morire o, peggio, di finire nelle mani dei russi, dalle quali si diceva che nessun prigioniero fosse uscito vivo, men che mai un ufficiale”. L’attaccamento all’esistenza prevale però sulla disperazione; così Corti e i suoi uomini decidono di continuare la marcia, avanzando come fantasmi nelle tenebre, con fragili coperte sulle spalle. Il futuro autore de “Il cavallo rosso”, però, ha la fede dalla sua parte: “Feci alla Madonna una promessa – scriveva Corti – non sotto forma di voto, perché non avevo più sufficiente fiducia nella mia volontà”. Se avesse avuto salva la vita, il giovane Corti avrebbe speso i suoi giorni “in funzione del versetto del Padre Nostro che recita ‘venga il tuo Regno’”. “Del Regno di Dio – continua Corti – che è il Regno dell’amore, ma anche della verità, ho deciso di privilegiare la verità, ed è in funzione di questa che ho impostato la mia vita”. Quel dono, la vita che ebbe salva, frutto dell’intercessione di Maria, rappresenta per Corti un punto di non ritorno, un ponte oltre il quale la sua vita non sarebbe stata più la stessa.

Repubblicano convinto, nel dopo guerra, Corti fu tra i pochi intellettuali a denunciare l’impossibilità di costruire il “paradiso comunista”; da qui l’ostracismo della critica. Termini quali plusvalore o alienazione non facevano parte del lessico di Corti. Per lui la condizione degli operai, delle loro famiglie, non era un asettico argomento di studio; e Corti gli operai li conosceva davvero. Ne “Il cavallo rosso”, infatti, ci sono tutti gli elementi che costituiscono l’humus nel quale egli è cresciuto, a Besana, in Brianza, con il padre, ex operaio divenuto industriale, ma che non ha mai dimenticato le proprie origini, guardando all’imprenditoria come a una missione; creare sempre nuovi posti di lavoro era l’obiettivo di Gerardo, il personaggio del romanzo modellato sulla figura del padre. “A segnare il percorso biografico dell’autore – ha sottolineato la relatrice – c’è un impasto familiare e culturale fatto di lavoro e di fede”, come nella migliore tradizione lombarda.

Un capitolo a parte Paola Scaglione lo ha dedicato alla guerra di Liberazione in Italia che, ne “Il cavallo Rosso”, Corti narra attraverso gli occhi di Manno Riva, proponendo al lettore la storia, reale, di Giuseppe Cederle. Partito dai banchi dell’Università Cattolica di Milano, Cederle – medaglia d’oro al valor militare – trovò la morte nella battaglia di Monte Lungo, nel tentativo di liberare il neo-costituito Regno del Sud dai nazisti. “Tanti e tanti altri soldati erano morti – scrive Corti – adesso toccava a lui. Ma ora come avrebbe potuto assolvere il suo compito? Quale compito? Malgrado l’affanno ebbe a un tratto un’illuminazione: la provvidenza l’aveva tenuto in serbo proprio per questo, l’aveva destinato a collaborare all’inizio della risalita, al recupero dell’Italia dalla palude”. Del resto “il soldato cristiano fa la guerra per suo dovere – sono sempre parole di Corti – non scappa per un presunto pacifismo”.

Al ritorno a casa dalla guerra Corti porta con sé ricordi inauditi, ma che devono essere raccontati, affinché la memoria non vada perduta. L’autore depone quindi le armi ma non cessa di combattere, soprattutto contro "l'utopia comunista". Una battaglia che gli costò l’isolamento da parte dell’establishment culturale italiano, apertamente schierato a sinistra. Con “Processo e morte di Stalin” - tragedia messa in scena a Roma nel 1962 al Teatro della Cometa dalla Compagnia stabile di Diego Fabbri e di Giovanni Santambrogio - scattò “l’operazione silenzio” sull’autore e la sua opera. Il suo anticomunismo lo relegò nel girone dei “proscritti in patria”; il giudizio della critica però non gli pesava, “non ebbe mai paura di dire la verità, era a Dio che si preoccupava di rendere conto, non ad altri”.

“Molto nobile – è il commento di Paola Scaglione - ma non sono i presupposti per il successo commerciale”. Nonostante tutto, il successo, con “Il cavallo rosso”, arriva; ed in questo senso, Corti rappresenta un’anomalia, soprattutto se si considera la totale assenza di una campagna di marketing alle spalle: “Si susseguono le edizioni, a trenta e passa anni dalla prima uscita. 'C’è dietro evidentemente la provvidenza' diceva Eugenio”. Il successo è tale che i lettori vogliono andare a incontrarlo, e questo accadrà fino alla fine. Nell’archivio dell’autore, Paola Scaglione ha potuto consultare migliaia di lettere, migliaia di testimonianze di come Corti abbia cambiato la vita di tante persone; segno, questo, che la sua “buona battaglia” - per l'avvento del Regno di Dio - non è stata vana.
ROMANO GUATTA CALDINI 19 apr 2015 00:00