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Kenya
di L. FEBBRARI 25 mag 2015 00:00

Gli scarponi della gloria di suor Irene Stefani

La religiosa valsabbina delle Missionarie della Consolata che ha dedicato la sua vita all’Africa sale agli onori degli altari. Si è spesa quotidianamente e senza riserve per l’evangelizzazione, macinando km a tutte le ore del giorno

Senza calcoli e per amore. La vocazione di suor Irene sboccia rapidamente, ma deve attendere il 1911 per entrare nell’Istituto delle missionarie della Consolata. Tre anni più tardi parte per il Kenya dove cura, solleva, istruisce e battezza madri e piccoli, anziani e malati, paziente e amabile senza stancarsi mai. Durante la prima guerra mondiale, con suor Cristina Moresco, assiste all’ospedale militare di Kilwa Kivinje, in Tanzania, i “carriers”, cioè i “portatori indigeni”, trattati male e sottoposti a carichi immani, vittime di carestie e pestilenze. Suor Irene assiste tutti sorridendo, dolcemente, compiendo pochi, solidi gesti di carità umana semplici, ma non scontati fra quei poveri relitti umani e intanto parla di Gesù, catechizza, battezza. Finalmente la guerra finisce e torna in Kenya.

Nel 1920, con suor Gabriella Margarino, suor Irene arriva a Ghekondi (Kenya), dove lavora nella scuola. Nel tempo “libero” sgranando il suo rosario, gira per le capanne, cercando nuovi scolari, mamme in difficoltà, anziani a cui portare aiuto e la Parola di Gesù. Sorride sempre, vuole bene a tutti, battezza. Non ha paura delle distanze né di camminare nella notte con i suoi scarponi della gloria accompagnata da un catechista e con il rosario in mano... Nella notte, quando può, scrive al lume di una lanterna delle belle lettere ai familiari. Scrive a tutti, particolarmente ai giovani studenti aggiungendo frasi appassionate, in un vero apostolato epistolare, in cui dà consigli materni, ma chiari: “Staccati da quegli amici. La loro fortuna non viene da Dio, non desiderare di averla, perché perderesti la grazia di Dio”. La sua vita donata fu interrotta dalla peste che la colpì a morte. Sabato 23 maggio alle 10 viene beatificata in Kenya: è stata, infatti, riconosciuta la sua intercessione nel miracolo dell’acqua. A Nipepe (Mozambico), durante la Messa dell’alba del 10 gennaio 1989 si odono degli spari, con i quali inizia l’assedio militare. Oltre alle persone radunate per la Messa, ai catechisti e agli animatori della diocesi con le loro famiglie, si rifugiano in chiesa altre persone per scappare all’eccidio. Rimarranno sotto sequestro per tre giorni. Il capo catechista Bernardo Bwanaissa, figura di rilievo della missione, permette a tutti di usare dell’acqua del fonte battesimale per sopravvivere, altrimenti nessuno avrebbe osato “bere l’acqua del Battesimo”. In quei tre giorni tutti quanti sono sopravvissuti mangiando qualche biscotto secco della Caritas e bevendo l’acqua del fonte. “Sembrava un albero che produceva acqua”, ha confermato uno dei sopravvissuti.

Si attribuisce a suor Irene l’intercessione, poiché era ed è conosciuta e invocata a Nipepe. Inoltre, il catechista Sebastiano Aranha, ignaro di quanto accaduto a Nipepe, viene a sapere che sua moglie e suo figlio sono stati deportati. Gli appare in sogno una suora bianca che lo rassicura: “Stai tranquillo! Tua moglie e tuo figlio stanno bene e torneranno a casa”. Suor Irene propone a lui e alla comunità di recitare, dopo il Padre Nostro, questa preghiera: “Il Signore è il mio Pastore sempre; il Signore è guida delle persone tutti i giorni”. Madre e figlio, come tutti gli altri deportati, tornano salvi a casa e davanti al tribunale Sebastiano con forza e convinzione aggiunge che da quel giorno in poi recitano sempre quella preghiera perché credono alla protezione di suor Irene.
L. FEBBRARI 25 mag 2015 00:00